lunedì 27 gennaio 2014

Il prezzo della verità

“Ma ora che torni a casa ti metterai a scrivere?”

Me lo sento dire spesso ormai e, che il tono sia ironico o comunque semi-serio, è proprio così. Se mi trovo fuori casa diventa tutta una corsa contro il tempo, una lotta struggente tra il voler restare perché potrebbe accadere qualcosa di spettacolare da vedere e il voler correre a casa a posare tutto quello che ho paura la testa non possa contenere; la maggior parte delle volte, lascio che le cose vadano da sole, senza affannarmi troppo, perché poi mi distraggo e mi arrabbio con me stessa perché ho lasciato indietro una virgola. Neanche ora ho uno schema preciso di quel che voglio dire, ma vediamo se ci riesco comunque.

Manca poco alle venti e trenta, l’aria è fredda, quasi pungente, e mi chiedo come mai oggi mi sia messa una sciarpa troppo leggera rispetto al mese che tacitamente ci accoglie. Corriamo a prendere i posti, stasera trasmetteranno un film nella sala retrostante la Chiesa e ho, come al solito, l’ansia di arrivare tardi o comunque troppo nel mezzo. Il film è dedicato alla giornata che inevitabilmente e ciclicamente si ripresenta ogni giorno come questo di Gennaio e si cerca di “goderlo” pienamente, come meglio si può. Ho usato una parola grossa, oggi non c’è nulla da godere, allora ci riprovo: ogni giorno come questo di Gennaio si cerca di viverlo pienamente, come si deve fare. In alcune parti del film, la mia mente corre in luoghi e tempi in cui io non c’ero ma che si figurano così concretamente dentro la mia testa da non riuscire a vedere più quello che realmente mi passa davanti. Mi sembra di sentire gli aerei, la radio annuncia una guerra ed io mi stringo a mia madre senza sapere quante altre volte ancora potrò farlo. Sento i bambini piangere, penso a mio padre e non so dove sia. Chiudo gli occhi, li strizzo e li riapro, un po’ tremo e non so se sia il freddo o una parte di me sia rimasta troppo emotiva. Le scene del film scorrono, una bambina abbraccia con strazio la propria mamma, la stessa che le aveva promesso che sarebbero ritornate a casa presto e che non riuscirà a mantenere quanto detto: vale, in quei casi, accendere una piccola bugia se comunque, fuori, non ti resta più nulla; bugie come quelle si perdonano subito. Sono di nuovo sola, nel bene o nel male ringrazio di avere anche quella sciarpa leggera che sembra però riuscire a sostenere lacrime pesanti e pensanti. Non azzardo neanche a dire cosa avrei fatto io al posto della bambina perché non puoi assolutamente immaginarlo. L’istinto primordiale vuole che l’uomo in pericolo scappi e pensi solo a se stesso e, come ovvio, la salvezza è il primo pensiero che mi è venuto in mente. Ma quando hai perso tutto, quando ti sembra di non potercela fare, quanto vale continuare a credere di essere l’eccezione in tutto quel male? Quanto può essere deleterio vivere una vita col senso di ribellione nei confronti di un destino che non aveva nei piani il nostro poter vedere una nuova alba? Eppure la forza è questa, è questo che ci si aspetta da chi invece è destinato a tenere unite le due parti di un filo che in un altro mondo si sarebbe già rotto. A vedere immagini come quelle, si crea dentro di se uno strano senso del dovere. Già, ma dovere di cosa? Di ricordare o di non dimenticare? Cavillavo, accendendo il mio portatile, sulla linea sottile che intercorre tra due termini che sembrano l’uno l’opposto dell’altro, che magari sembrano lontani ma che in realtà sono così vicini. Ricordo una mia professoressa del liceo che spesso diceva che i contrari non esistono, allora ho pensato alla vita propria di due termini del genere, come se fossero gemelli eterozigoti e biovulari: ho il dovere di ricordare tramandando quello che so e quello che vedo. Ho il dovere di non dimenticare quello che mi è stato detto, riferito, quello che ho letto. Ho il dovere di ricordare dove ho letto una determinata parola e di non dimenticarne il significato. Ecco, a volte sembrano termini consequenziali, altre sembrano voler dire la stessa cosa, altre ancora il ricordare sembra il punto di partenza mentre il non dimenticare appare accovacciato nel letto con la testa sul cuscino perché ormai la terminologia, il concetto, è bello che impresso nella memoria. Checché se ne dica, che si voglia ricordare o non dimenticare, la cosa importante è che resti. Il nostro DOVERE è quello di preservare la memoria, di avere anche noi una chiave con la quale aprire e chiudere il nostro scrigno e immetterci quanto possibile. Le informazioni devono diventare parole, le parole emozioni, le emozioni passione ed infine insegnamento. Abbiamo il dovere morale, in quanto futuro nel presente, di portare con noi il passato.
Il film è finito solo sullo schermo. Il mormorio si è riacceso, insieme alle luci, e si ha avuto modo di guardare le facce dei presenti per vedere cosa era rimasto in ognuno. Gli occhi, le espressioni, raccontano molto. Fuori le strade sono deserte e ho visto la pioggia cadere e lavare via tutto, così mi è venuto in mente il gelo di prima in una metafora davvero molto semplice: il gelo erano gli atti cruenti; il deserto tutto quello che ne ha conseguito, la strage, il silenzio; la pioggia, infine, il perdono e la speranza. C’è chi ha chiesto scusa per un male comune. C’è chi spera che quel male possa non ritornare mai più. Quella pioggia è servita a ricordare che si fa presto a rompere il silenzio e a lavare via tutto. Lavare, non cancellare. Permanere e rimediare, nel desiderio che l’uomo riesca ad essere più simile all’uomo e meno all’animale. Per quanto mi riguarda, spero di poter ritornare nei luoghi della memoria che ho già avuto modo di attraversare con un animo forse non ancora pronto. La memoria è uno strumento potente per quanti riescono a ben adoperarla: ricordare e non dimenticare, perché “a volte le storie che non riusciamo a raccontare sono proprio le nostre, ma se una storia non viene raccontata diventa qualcos'altro, una storia dimenticata. Quando una storia viene raccontata, non può essere dimenticata, diventa qualcos'altro. Il ricordo di chi eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare”. (dal film La chiave di Sara, di Gilles Paquet-Brenner)

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