sabato 27 dicembre 2014

Fiat voluntas tua - L'uomo sogna di volare

L'uomo sogna di volare. E che novità, sai.
Secondo Freud, il volo unisce la collettività umana perchè ne incarna il desiderio infantile: diciamocela tutta, chi (non necessariamente quando era un poppante, c'è chi non cresce mai) non ha provato a librarsi in volo desiderando di avere da sè i mezzi per farlo? 
Ufficialmente, i primi temerari che provarono ad avvicinarsi a quel pezzo di mondo sconosciuto vennero chiamati PIONIERI DEL VOLO perchè, nonostante il cielo sia parte del quadro della nostra vita, non poterne toccare con mano la sostanza l'ha sempre reso più lontano di quanto in realtà non sia; è come vivere in una sfera e girarci sempre in tondo senza avere la possibilità di sentire la materia che "poggia" sulla propria testa.
Il cielo è l'espressione più alta dei nostri desideri: più sono lontani e più sembrano irraggiungibili, più assumono fascino e infondono una forza che non pensavamo di avere.

Icaro. o Icarus. O Ίκαρος. O Vicare.
Avrebbe anche potuto chiamarsi Bob o Fenizio, invece si chiama Icaro e sembra il nome di un nuovo prodotto della Apple: I-caro, il cellulare che sa volare.

Insomma, Icaro è la forma concreta del sogno, è ciò a cui possiamo pensare quando ci sembra di avere aspirazioni troppo elevate rispetto a persone tanto piccole quali siamo nell'immensità del pianeta che ci ospita. Anche Icaro avrebbe potuto pensarla così: chi era lui, in fondo, se non un giovane sognatore figlio di un inventore e di una schiava? Non è vero, dunque, che i sogni non sono alla portata di tutti; sono alla portata di quelli che hanno spalle abbastanza resistenti per sostenerne il peso. E anche se non si hanno le spalle ma si hanno gambe che hanno voglia di camminare e andare lontano, va bene lo stesso, non siamo qui a far gli schizzinosi. Il motore non è la carcassa che ci portiamo dietro per tutta la vita, il motore si chiama voluntas ed è racchiusa nella nostra mente, a volte anche nel cuore. 


Siamo sull'isola di Creta, è il Qualcosa a.C., ed il padre di Icaro ha un grosso lavoro da portare a termine: il re Minosse vuole gli venga costruito un enorme labirinto per rinchiuderci il Minotauro, orribile creatura mangiauomini che ogni anno, per il pranzo di Natale, consuma sette fanciulli e sette fanciulle (da qui l'espressione "mi sento una vacca"). Che poi questo cucciolo di toro aveva anche un nome, Asterione, così bello che nessuno l'ha mai utilizzato per non sciuparlo... Dante, che lo incontrò a guardia del girone dei violenti, disse di lui « e 'n su la punta de la rotta lacca, l'infamïa di Creti era distesa, che fu concetta ne la falsa vacca » : insomma, non proprio un bello spettacolo.
Tornando a noi. E' estate, Icaro non ha compiti per le vacanze e da bravo figliuolo aiuta il padre nella costruzione del labirinto. Terminato il tutto, il re per ricompensarli li rinchiude nel labirinto: insomma, sto fatto che chi ha il potere è un po' fuori di testa è roba che esiste da sempre. L'errore fatto dal re è stato dare per scontata l'ottima riuscita della sua genialata, senza fare i conti con il fatto che non la si può fare ad un artista: troverà sempre il modo per fregarti. Sta di fatto che, dopo qualche giorno di vacanza nel labirinto, padre e figlio non ne potettero più di vedere solo ed esclusivamente i loro brutti visi così il padre s'ingegnò: costruì delle ali con delle penne (cosa ci fa un numero ingente di penne in un labirinto?) e le attaccò ai loro corpi con della cera (cera? In un labirinto?).
"Sbatti figlio, sbatti più che puoi e vola!", disse Dedalo padre ad Icaro. "Vola da tua madre e dille di buttare la pasta che stiamo arrivando", concluse. Icaro cominciò a dimenarsi, e a scalciare, e a sudare e tanti altri verbi fino a quando riuscì a staccare i piedi da terra e a vedere l'orizzonte ma non andò tutto per il meglio. Icaro in fondo era un giovinotto con tanta voglia di scoprire ed esplorare allora cominciò a salire e ad andare in alto, ma così in alto che si avvicinò troppo al sole e la cera ne venne sciolta come lacrime su una candela. Icaro cominciò a perder quota fino a cadere totalmente e a schiantarsi in mare, dove non ci fu possibilità di salvezza.

Il sogno di Icaro cela un insegnamento ed una morale: la morale della favola è che seguire i propri sogni non è mai sbagliato, anche se lo sembrano. Sfido chiunque a dire che Icaro, in quegli attimi in volo, non fosse totalmente appagato e fiero dell'impresa che stava compiendo. Sono del parere che coloro i quali critichino i sogni altrui siano sconfitti in partenza: una vita a dar retta alla sola ratio è una vita fatta di stenti. Col senno di poi probabilmente Icaro si sarebbe fatto costruire anche un paracadute, ma si sa che vedere il futuro stando seduti nel passato è tutto fuorchè possibile. 
L'augurio più bello che ci si possa fare fare è VOLA COME ICARO!, perchè nulla vale l'ebrezza di stare ad un passo dal sogno e scoprire di potercela fare e di potersi ancora stupire.


mercoledì 29 ottobre 2014

Il giovane rinchiuso

Comincio col dire che la mia passione leopardiana non è mai stata una novità, almeno per quanti mi conoscono; conservo gelosamente gli appunti che ci passò la professoressa Ciliberti e li ho così ben impressi nella memoria che ricordo perfettamente ogni rigo sottolineato con l'evidenziatore, la perfetta collocazione dei titoli e le parole messe in risalto, col grassetto panciuto. E i righi evidenziati erano tutti, perchè tutti importanti. Ah, e i cuoricini vicino le poesie..
Comunque. Mario Martone quest'anno mi ha fatto un gran bel regalo: IL GIOVANE FAVOLOSO, film biografico che racconta la vita di quel genio malaticcio di Leopardi che ha trovato voce ed espressione nella persona di Elio Germano (e tanto trucco e parrucco).  
Non sbaglio se affermo che Leopardi è una persona che difficilmente si ama se non ci si riesce ad approcciare sensibilmente al suo animo: ricordo i tempi delle superiori quando, alla voce della Ciliberti che con la r moscia annunciava "oggi cominciamo Leopavdi", in aula si mormorava un unisono di "madò, che palle, quel depresso". Ed io, invece, che lo amavo tanto.
Chi conosce la vita di Leopardi sa che il suo "studio matto e disperatissimo" era fortemente voluto dal padre Monaldo (a scuola non lo ricordavo mai; poi studiai un espediente, mon-aldo, dicendo fosse il modo in cui lo chiamava la moglie in un momento di intimità: "ah, mon Aldo".. il francese fa sempre un certo effetto). Dei tre figli, Giacomo era il più promettente, forse il prediletto, la capretta zoppa da difendere e tenere con sè. Giacomo amava il padre, era il pilastro della sua esistenza, ma allo stesso tempo lo odiava per il suo volergli tarpare le ali: una persona così grande diventava invece tanto piccola sotto lo sguardo austero di Monaldo.
Durante tutto il film, le parole TRISTEZZA, ANGOSCIA, PESSIMISMO e DISPERAZIONE non hanno fatto che aleggiare in tutta la sala fino a quando non c'è stata la rivelazione:
non imputate al mio stato fisico ciò che è solo del mio intelletto.
Ecco, forse le parole non sono state precisamente queste ma è ciò che è rimasto nella memoria. Da qui in poi tutto ha assunto un altro colore, un altro sapore, un altro suono. La disperazione anelata negli occhi di Elio Germano non riflettevano un dolore fisico (comunque difficile da nascondere e/o da ignorare) ma un magone chiuso dentro e lungo tutta una vita. Un Leopardi favoloso ma rinchiuso in una gabbia, fisica e mentale. Nonostante la fuga dalla villa di Recanati, cinta da una siepe che è diventata poi simbolo universale legato all'ermo colle, Leopardi non riuscì mai a fuggire da se stesso e dai suoi demoni. Sicuramente imparò a conviverci, questo sì, come pelle sulla pelle, manto su una gabbia che troppo presto cominciò ad arrugginirsi.
Nessuna pena se non davanti alle sfighe amorose: prima la morte di Teresa Fattorini, la sua Silvia, poi il tanto dannarsi per una donna, Fanny, troppo vicina alla donna che preferisce il giovanotto aitante ad un giovane vecchio ma con il mondo nella testa. Nessuna pena ma tanta ammirazione per un genio segregato in una carcassa ma con infinita ironia di sè e tanta voglia di vivere la vita.
Ebbene sì, perchè il nostro Giacomo non ha mai voluto precludersi nulla: cercava l'amore, lo sentiva nelle viscere, amava la natura e voleva dare ai suo occhi nuovi orizzonti in cui perdersi. Come non amare, allora, un uomo che nel suo tempo ha già saputo prevedere ed abbracciare anche i nostri? 
Il tocco più grande Martone l'ha dato alla fine: nessuna conclusione prevedibile, nessuna scena in cui Leopardi termina i suoi giorni in un letto fatiscente. Leopardi non ha avuto fine, resta simbolo infinito in una vita che per lui è stata breve ma intensa passando a noi, posteri, il suo desiderio di eternità.

    

venerdì 18 luglio 2014

Lettera ad un'amica mai nata

Cara amica mia,
chiamarti amica è già un azzardo, mia è addirittura impensabile.
Non si possiede ciò che non si ha.
Riflettevo questa mattina sulla possibilità di poter essere felici affidando anima e corpo ad un'altra persona. Pensaci: un problema diviso due è già metà problema, un pensiero condiviso è già una piuma nel cielo. 
Amica, a volte mi chiedo se non sia una millanteria camminare convinti di avere qualcuno che ci sorregga quando siamo sull'orlo di un burrone, quando siamo ad un passo dal cadere giù senza voler almeno tentare di evitarlo.
Ho come il vago sentore di aver avuto, una volta, due cuori in uno; lì, dove ora tutto sembra fermo, una volta c'erano il caldo e il freddo, la compagnia e la solitudine, coesistevano il bello e il brutto senza darsi spintoni, perchè dirsi amiche è già compensazione.
A me manca quello che hai tu.
A volte ci penso e mi chiedo se non stia dando di matto, se sia possibile inventare sensazioni, emozioni e plasmare ricordi secondo il nostro gusto e la nostra volontà. Sicuramente si, l'uomo è capace di questo ed altro per protendere verso i propri fini; sicuramente no, l'uomo non farebbe mai qualcosa per ledere se stesso.
Eppure mi dico che avere due alternative è come avere nessuna verità, quindi mi chiedo ancora se avere quei due cuori fosse come avere nessun cuore.
Tu non ci sei mai stata, non sei mai esistita, non mi hai mai conosciuta.
Non sono veri quei ricordi di me e te che ci scambiamo il gelato per avere quattro gusti in due, non sono vere le passeggiate senza una meta, non sono vera io piena di capricci e non sei vera tu che non dai segno d'esser mai vissuta sulla seggiola vuota accanto alla mia.
Non sono non-verità, è solo dolore e coscienza d'essere uno e non due.
Scrivo a te che non sei mai nata per dirti che capita di nascere ogni giorno e di esser fatti quel giorno per stare soli perchè, neanche in quelle ennesime ventiquattro ore, neanche in un'altra parte lontana del mondo, non ha aperto gli occhi chi è capace di sorreggere un peso come il tuo.
A volte non nascono mai, a volte nascono in ritardo, a volte nascono senza riconoscersi nell'altro e allora non si trovano mai. Pazienza, poco male, dico io. Non nascere e non riconoscersi sono mancanze di un uomo troppo peccatore per volersi aggiustare, per volersi migliorare ammettendo prima di essere un poco in un immenso.
Quando non ci si basta, la cosa migliore è uscire, guardare altrove, cercare e cercarsi negli occhi di un altro riconoscendosi per quello che non si è. O che si è.
Amica mia, io ti ho cercata, ho guardato fuori avendo gli occhi chiusi, perchè trovarti sarebbe ricredersi e forse ricominciare. Non lo faccio per amor mio, perchè io sono rimasta mia quando mi sembrava di non avere più niente e ravvedersi è già tradirsi un po'.   
Io qui ti abbandono e non senza dispiacere, ma per abbandonare bisogna possedere.
E non si possiede ciò che non esiste.

mercoledì 16 luglio 2014

Loki, il signore delle ambiguità

Caro destinatario,
è rinomato, ma sicuramente non esplicitato da me nei tuoi riguardi, l'amore immenso che provo verso i miti, i racconti e le leggende. 
Già da bambina ero appassionata di mitologia greca, grazie a mia mamma, e alle scuole medie ricevetti un libro come premio di fine anno del corso di teatro che verteva proprio sui miti che a me piacevano tanto. Rettificando la mia ferma credenza che il caso non esista, ho reso sempre più mia la passione per il mito allargando gli orizzonti anche verso le leggende popolari di paesi completamente abbandonati dal mondo.
Questa mattina ho fatto una ricerca tra le leggende nordiche; tra tanti nomi di guerrieri forti e possenti, non potevo che aprire la pagina del forse più sfigato di tutti: LOKI, il signore delle ambiguità.
Premettendo che il nome è tutto un dire, perchè con un accorgimento diventerebbe L'OKI, il signore degli ammalati, ho tirato fuori la parte più caritatevole del mio essere e mi sono cimentata nella lettura.
Pare che il tipo non fosse solo il soggetto della comitiva divina, il buffone OLIMPionico per eccellenza, ma si rendesse anche odioso agli occhi di tutti per il suo essere scontroso, burbero, doppiogiochista, tracotante e altre malignità varie. La madre si chiamava FARBAUTI (sicuramente FARABUTTO in barese) e il padre LAUFEY, che era comunque un cattivone: cattivo sangue non mente - o mente sempre.
LOKI era bello, POLIMORFO e dannato, ambiguo per questo, e deteneva il record di amori meno duraturi di tutti i tempi: persino ORKY, il cugino di quinto grado della famiglia POLIFEMA, quello con un occhio solo e brutto come Ade, riuscì ad arrivare al settimo anno di fidanzamento.. poi scoppiò la crisi, ma quella è un'altra storia. Dicevo, il bello ma cattivo lavorava in un'agenzia di viaggi oltreoceano ed era molto amico del sindaco Odino, che pare facesse patti col diavolo pur di ottenere quel che bramava.
Stanco di una vita frivola e spericolata, LOKI prese moglie ed ebbe un figlio, anche se quella povera crista poteva benissimo farne a meno: lei fu condannata in saecula saeculorum a raccogliere un liquido che delle serpi versavano sul corpo del marito, come pena a tutte le malefatte compiute, mentre era legato con le budella di uno dei due figli ucciso dall'altro, trasformato in un lupo mannaro.
Ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
Durante le sue notti brave, il periodo più ricco di efferratezze e perversioni erotiche, LOKI si divertiva a trasformarsi in una giumenta perchè era terribilmente attratto dagli stalloni; spesso perpetuava queste sue metamorfosi - anche se l'accezione del termine è abbastanza disambiguo - e partoriva esseri mostruosi a volte consunti su roghi appositi, come nel caso dell'orchessa Angrbodha il cui cuore, rimasto illeso, venne mangiato dal padre/madre LOKI. L'assimilazione dell'organo cardiaco causò la formazione, nel ventre del divino (che di divino non aveva nulla) di tre mostri: un serpente, un lupo e una fanciulla grossolana. 
Diffusasi la voce della pericolosità di queste creature, il sindaco (meglio tardi che mai) li esiliò perchè disse che non erano buoni neanche per il carnevale o per il circo. La serpe in particolare venne reclusa nelle profondità dell'oceano dove crebbe a dismisura e cinge, tuttora, il mondo con le sue spire: non a caso, viene chiamato "Serpe del mondo". Alla serpe il lavoro andrebbe anche bene, la paga non è male, se solo non fosse per quel guastafeste di Thor che, a giorni alterni, cerca di ucciderlo.
Alla sorella è andata meglio: fa la regina degli Inferi, ogni tanto infligge punizioni senza motivo ma per il resto non c'è male.
Il lupo invece fa da badante alla nonna di Cappuccetto Rosso: vitto, alloggio e cestini di prelibatezze ogni 7 e 21 del mese.

Forse il mito non è stato raccontato, nell'originale, proprio nello stesso modo ma il bello delle leggende popolari è che, passando di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, capita sempre chi il gioco del telefono non lo sa fare e travisa un po' le cose. D'altronde, vista la realtà e la gravità di fatti del genere, non penso che sapremo mai come sono andate realmente le cose..      
     
      
Selfie con autoscatto della punizione di Loki, 2014

domenica 15 giugno 2014

The importance of being Carest - L'importanza di chiamarsi Mamma

Caro destinatario,

due giorni fa è accaduto qualcosa che ha profondamente turbato la mia indole materna: mio figlio stava per morire. Il problema, magari, non sta nemmeno nella morte in sé ma nelle modalità in cui il tutto è avvenuto: ebbene, il piccolo Kafka ha tentato il suicidio. Ultimamente lo vedevo silenzioso, mangiava e si chiudeva nella stanza, ma nulla faceva presagire le cose strane e misteriose che da lì a poco sarebbero accadute. Mi chiedo se non sia colpa del mio continuare a trattarlo come un bambino quando ormai è un ometto, ha già 36 giorni e me sembra sempre come se fosse ieri che è entrato nella mia vita. Nulla, la giornata di venerdì era apparentemente tranquilla: ho fatto i servizi, gli ho preparato lo spuntino e mi sono messa un po’ a leggere. Ricordandomi che quello era il giorno del bagnetto, ho lasciato di fare quel che stavo facendo e sono andata nella sua stanza. Ha cominciato a divincolarsi perché non voleva lavarsi, correva a destra e a sinistra per sfuggire alla mia presa e non voleva sentir ragioni. “Franz, non fare il monello, ora mi arrabbio!”, gli ho urlato, ma è stato come se il mio rimprovero gli entrasse da un orecchio e gli uscisse dall’altro. Così ho preso il cucchiaio di legno, lui si è messo sull’attenti e finalmente siamo andati a fare il bagno. Mentre preparavo la vasca, lo guardavo piena di sensi di colpa per averlo sgridato; ho capito quant’è difficile per una madre dover ricorrere alle maniere forti solo per farsi ascoltare, perché il suono amorevole della propria voce a volte non basta. 


È stato un attimo.

Mi sono allontanata due secondi per prendere l’asciugamano, sicché non si raffreddasse una volta finito il bagno, e i miei occhi hanno visto il dramma compiuto: Franz era a terra, inerme, il petto non dava segnali di movimento e ho subito pensato al peggio. Ho urlato come se, in quel momento, a morire fossi io, come se ci fossi io a terra al posto di quel corpicino. Non avevo il coraggio di avvicinarmi, volevo prendermi a pugni per esser stata una madre disattenta, degenere, incauta e non so più che altro. Non riuscivo a toccare quello che io stessa avevo lasciato che accadesse. Mentre la mente camminava e il corpo restava immobile, mio fratello è accorso in mio aiuto praticandogli un massaggio cardiaco e Franz ha ripreso a respirare. Non mi ha nemmeno guardata, è stato come se nulla fosse accaduto ed io non ho voluto riaprire l’argomento. Non posso, però, cancellare le sensazioni di terrore che ho provato in quel momento!

Mi chiedo come sopravvivrò alla tempesta ormonale, ai primi amori, ai problemi adolescenziali e tutto il resto se lui non mi parla. Si chiude in sé, nel suo mondo, e non parla con nessuno. È dura essere una ragazza madre ma sento di non fargli mancare mai nulla. Certo, quando lavoro devo lasciarlo dalla nonna ma è solo per garantirgli un futuro! Spero non ce l’abbia con me per questo. Anzi, forse la cosa peggiorerà quando dovrò dirgli che è stato adottato: certo è che, confrontando il colore scuro della sua pelle con il mio, qualcosa l’avrà intuita. È intelligente il mio bambino e mi auguro che capisca che ogni mio passo, giusto o sbagliato, è stato un passo pieno di amore compiuto solo per lui.

lunedì 9 giugno 2014

Equivocamente parlando - I Menecmi

Caro destinatario,
c’era un tempo in cui scrivere era vitale come lo è per me bere succo a pranzo, ma ultimamente mi sto perdendo un po’. E sto perdendo anche un paio di dita al giorno, se vogliamo dirla tutta. C’era un periodo in cui mangiavo carote a go-go ogni pomeriggio, le vaschette intere, e questo comportava dita sbucciate per colpa del pela carote. Ad un certo punto anche il sangue era diventato arancione, poi ho deciso di smettere e le mie dita hanno rivisto la luce. Ora sono nella fase “a volte ritornano” e giro con le dita incerottate, sintomatico che c’è qualcosa che non va.

Ieri non sai cosa è successo: ho fatto un vero e proprio salto nel passato, fino agli anni della terza media in cui mi atteggiavo ad attrice da miglior premio Oscar al teatro della scuola ed in particolare pensavo ad una rappresentazione di cui mi rendo conto solo ora di quanto mi sia rimasta nel cuore.
La storia era incentrata sulla commedia degli equivoci ad opera di Plauto ma, più precisamente, sulla storia di due gemelli e sulle loro peripezie quando l’uno viene scambiato per l’altro. Un po’ come quando io e mio padre usciamo di casa e la gente chiede a me il perché mi sia tagliata i baffi e a lui il perché NON se li sia tagliati. È dura la vita del gemello.
Dicevo, questi due gemellini non hanno avuto vita facile: a parte il fatto di chiamarsi nello stesso modo (immagina te l’ansia quando in classe ti chiamano per l’interrogazione e il prof dice “chiamiamo Menecmo... vediamo: 1 o 2?” e tu lì a morire di crepacuore) ma anche perché uno dei due venne smarrito al mercato di Taranto dal padre. Vedi cosa succede a far fare le cose agli uomini?
Insomma, tra una vaschetta di pomodorini a 50 centesimi al kilo e i kiwi da scegliere perché la mamma a casa deve preparare la torta alla frutta, uno dei gemelli si perde. Al tempo le adozioni erano molto più semplificate rispetto ad ora, così un uomo lo trovò per strada, lo guardò e disse “lo adotto” molto facilmente, come si farebbe a quel famoso mercato davanti al banco del pesce.

Per capirci meglio, M1 è il gemello smarrito, M2 l’altro.

Una volta a casa, il padre riferì la notizia dello smarrimento e la moglie fece volare in aria il tavoliere sul quale stava impastando la base per il dolce; qualche giorno dopo, il marito morì. Molti dicono sia stato il dolore ad ucciderlo, secondo me è stata la moglie.
Ad M2 fu dato solo in seguito il nome del fratello, una sorta di lapide vivente insomma. M2, crescendo, sente il bisogno di trovare il fratello perduto (ma chi gliel’ha fatta fare, poi? Non era contento di avere la stanza tutta per sé?) così arriva ad Epidamno insieme al servo: bingo.
M1 era diventato un bel giovane con tanto di moglie e amante, proprio per non farsi mancare nulla; un po’ tirchio, forse, dato che sottraeva alla moglie per dare alla morosa. No, non c’entra niente con Robin Hood… quella è un’altra storia. 
Quel giorno, M1 era ospite a pranzo dalla concubina così, mentre attendeva che fosse pronto, esce a fare un giro al foro; contemporaneamente, il cuoco viene mandato al mercato per far la spesa e, ta-da!, incontra M2 scambiandolo per M1. M2 pensa di esser capitato nella città dei pazzi, ma lascia perdere e prosegue il suo giro. Incontra poi una strana donna che lo invita a pranzo: cambiando idea riguardo quella città che appare ora così ospitale, accetta. Il servo di M1, Spazzola (era un soprannome datogli per via dei capelli e che cresceva con lui: da piccolo lo chiamavano Pettine), vedendo il suo padrone uscire dalla casa dell’amante senza averlo aspettato, spiffera tutte le sue malefatte alla moglie che subito scappa di casa e tira le orecchie ad M1 chiedendogli la restituzione del mantello, dono di M1 all'amante, ormai nelle mani di M2 in seguito ad un equivoco. M1 si reca quindi a casa dell’amante, nel frattempo però M2 viene fermato dalla moglie e dal padre e riempito di domande di fronte alle quali, ovviamente, egli non sa che rispondere o nega imperterrito. Viene interpellato un medico ma M2 scappa fingendosi pazzo; i medici lo inseguono ma acciuffano M1, ignaro della situazione e in preda al panico. Povero diavolo.

La rivelazione dell’equivoco avviene per mano del servo di M2, che riconosce subito il volto di chi l’ha stipendiato per tanti anni: Maria apre la busta e i gemelli si riabbracciano.

Ah, quella povera cristiana della moglie, cornuta e mazziata, viene pure venduta all’asta. Una cosa però l'ho capita: per quanto possa essere importante il legame con la famiglia, tra moglie e marito... non mettere il gemello.

mercoledì 21 maggio 2014

Per viltade il gran rifiuto

Caro destinatario,

tempo fa ti scrissi una lettera, era esattamente una mattina del 16 aprile ed erano le 12 e 08 in punto. Ti scrissi senza la volontà di renderti realmente partecipe dei miei pensieri, capitano periodi in cui vorrei abbandonarti ma poi ci penso e proprio non ce la faccio.
La tua/mia lettera faceva all'incirca così:

Caro destinatario,
in meno di una settimana la mia vita si è completamente capovolta: il caro pesce rosso è morto, dopo un anno e mezzo quasi di fantastiche avventure; il mio primo articolo è stato pubblicato e quel pazzo del mio direttore addirittura ne pubblicherà un secondo; il concerto del coro in cui canto è andato Oltre Ogni Previsione (le influenze potteriane si fanno sempre sentire) e, cosa ancor più meravigliosa, ho toccato da vicino qualcosa che mi pareva così irraggiungibile che neanche l’idea s’azzardava a sfiorarmi la mente.
Non di rado capita che la paura o il pensiero di “quel che potrebbe accadere se” ci impediscano di andare infondo a talune questioni che potrebbero, invece, avere un risultato migliore della vincita al lotto. Mi spiego meglio: un buon uomo di nome Dante a nove anni conobbe una bambina di nome Beatrice (o Bice, come la chiamavano in paese); le bambine, si sa, crescono e si sviluppano molto prima degli uomini (che in alcuni casi non crescono affatto) e Bice era bruttina, piatta come una tavola e con i crateri lunari sul viso. Dante, per queste ragioni e avendo di se una grossa autostima perché la mamma gli diceva che era bello, non volle mai approfondire l’amicizia con lei, nonostante le rispettive famiglie volessero farli accasare in modo tale da passare Pasqua e Natale sempre insieme. Insomma, quel matrimonio non s’era da fare.
Passarono gli anni, a Dante crebbe un uncino al posto del naso e finalmente raggiunse l’età adatta per guidare. Una sera, durante un’uscita con gli amici, il nostro amico incontrò per strada una donzella bella, ma così bella che a Dante sembrò avesse addirittura le ali. In Dante cominciarono a moversi il sole e l’altre stelle, voleva urlare al mondo quant’ella fosse beata e tenerla con sé per il resto della vita. “Sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva”, cominciò a dire quasi in preda ad una visione mistica. “Quando esci con noi, te non bevi più, testina”, gli cantarono gli amici.
Con la scusa più banale del mondo (“mi scusi, mi sa dire che ora è?”), lei gli parlò. “Dante, non mi riconosci? Sono Beatrice, la figlia di Ninnella!”.
Beatrice. Quell’anatroccolo di donna si era trasformata in uno splendido cigno che brillava di luce propria, quell’errore della natura era ora l’opera più bella e perfetta di Michelangelo, solo che lei parlava.
Dante, l’indomani, fece pervenire a casa di Beatrice XXXI candide rose e si chiuse in casa per scrivere un poema divino degno della donna amata. Passarono gli anni, e Dante ancora pensava a lei ma non poteva assolutamente lasciar insoluto quel papirone a cui si stava dedicando. Una mattina funesta, però, un bando avvisò la città che la bella Beatrice non solo era morta, ma che il marito ne dava il triste annuncio. Il mondo gli cadde addosso, nulla più aveva un senso. Cosa sarebbe stato, ora, della sua vita nuova, quella che aveva conosciuto da quando l’aveva incontrata? Durante il periodo luttuoso, Dante decise di andare avanti e conservare il ricordo di lei, comunque si sposò ed ebbe 3 o 4 figli, ma non si sentì mai completo come con lei.

Ecco, questo spiega un po’ la pratica del carpe diem: magari, e dico magari, se Dante avesse rivelato prima i sentimenti per Beatrice anziché mandarle delle rose e poi scrivere una commedia che nemmeno avrebbe mai letto, le cose sarebbero andate diversamente. Certo, è anche probabile che mai se lo sarebbe filato, però non avrebbe vissuto una vita di rimorsi. È un po’ come quel tale che vuol vincere la schedina ma non la gioca mai. Va bene il caso fa la sua parte, ma stare seduti a guardare è come aspettare che il telecomando si avvicini magicamente al divano su cui siamo spaparanzati: inutile e deludente.
Per questo ti dicevo di quanto, nel giro di pochi giorni, la mia vita sia cambiata avendo avuto solo la volontà di farlo. 

Inutile, quindi, piangersi addosso senza neanche aver versato il latte: spetta un posto all’inferno anche per gli ignavi e, credimi, la questione rischia di diventare pungente.


sabato 10 maggio 2014

Donne e motori, ciclo e dolori

Caro destinatario,

prima del sesso e dei matrimoni gay, l’argomento più tabù al mondo resta il ciclo delle donne. Certo, tutti sanno che esiste (non è una leggenda, tu non saresti qui altrimenti e nemmeno io) ma nessuno osa parlarne. O meglio, magari gli uomini vorrebbero parlarne ma proprio in quei cinque giorni di periodo rosso in cui le donne, o la maggior parte, sono completamente intrattabili. Che poi, meno male che l’hanno le donne: già m’immagino gli uomini, in un ipotetico universo parallelo, morenti e sofferenti nel letto addirittura dieci giorni prima e intenti a lasciar testamento perché potrebbero non superare la notte. 



La donna col ciclo è diventato uno dei simboli ad hoc per la rappresentazione del male: occhi infuocati, capelli irsuti come serpi, sguardo arcigno e unghie e denti affilati pronti a sradicare dalla faccia della terra la prima parola o frase detta in modo sbagliato. Non per niente, nel Medioevo si riteneva che avere rapporti con una donna mestruata potesse provocare la lebbra: in quei giorni, la donna impura e peccatrice (ma de che?) veniva costretta in una stanza in isolamento perché aveva poteri forse inversi a quelli di Re Mida sciogliendo come acido tutto quello che toccava. 


Le donne mestruate furono prese sempre più di mira e messe sempre più nell’occhio del ciclone, tanto che diversi medici della Grecia antica studiarono il fenomeno dell’isteria come causa di un fantomatico utero vagante che capovolgeva completamente l’anatomia femminile provocando, appunto, fenomeni di fanatismo estremo. Ne parlarono in così tanti che dopo Futuristi, Crepuscolari e Avanguardisti, nacquero anche gli adepti alla “corrente pro-mestruo”, caratterizzata da scritti nei quali compaiono anche “uteri birichini che scappavano quà e là”. Mi chiedo se, anziché la falce e il martello, utilizzassero assorbenti e tamponi come icona riconoscitiva… 
Dati e testimonianze sono riportate, ovviamente, da medici di sesso maschile. Chi l’avrebbe mai detto.
Dall’altro lato della medaglia, però, il ciclo è diventato fonte di guadagno per i coraggiosi che si son cimentati in questo misterioso infero terrestre e che hanno saputo trarne profitto con chimeriche coppette raccogli ciclo (e magari conservarlo per i periodi di magra o improvvise visite di Edward il vampiro) e assorbenti tappa-ogni-buco.
La verità è che quella della donna mostro è solo una leggenda per allontanare i teppisti della domenica, quelli che proprio non riescono a non infierire sui bubboni fase premestruale che addobbano a Natale il viso delle malcapitate. Una piccola vendetta, in sostanza, ci sta tutta.
Non è un’epopea, invece, la visione della donna eroe: dopo la signora in giallo, quella in rosso sarebbe stato un ben degno tributo. La carta non esisteva ancora, le donne vivevano nelle piramidi e una volta al mese si potevano udire gli scriba urlare e inveire contro misteriosi rotoli di papiro e pergamene che sparivano chissà dove per ricomparire qualche giorno dopo, proprio nel posto in cui erano stati lasciati, ma con qualche macchiolina scura in più. Da lì nacque l’effetto bruciato della carta pergamenata. 
Se le donne del secolo scorso potessero vedere quanto sia minuscola la biancheria intima delle ragazze di oggi, sicuramente avrebbero uno shock non indifferente: per loro, in quei giorni, era normale amministrazione indossare i sì detti mutandoni della nonna o grembiuli sanitari e calzoncini così da non sporcare i cuscini quando sedevano sul divano buono. 
L’emancipazione delle donne nacque da quell’isolamento forzato che le ha spinte creare una sorta di gruppo di ciclo solidale e ispirandole a studiare su loro stesse nuovi metodi per impedire al liquido rosso di sgorgar via come la piena del Nilo: lasciate sole a casa mentre i loro mariti lavoravano o partivano per la guerra, le donne-casalinghe-madri-mogli con il ciclo testavano ogni genere di panno assorbente fino a trovare qualcosa di molto simile allo Scottex che potesse alleviarle da ogni pensiero. E poi sicuramente si riunivano in qualche Club del Ciclo per scambiare idee e invenzioni sulla questione. 

Sull’argomento se ne potrebbe discutere per ore ma sicuramente avremmo per risultato una banda di uomini segregati in un angolo con le mani alle orecchie, inermi e semi-traumatizzati perché il diavolo potrebbe intaccare il loro fragile udito. State tranquilli, filtri mortali con il ciclo ancora non ne sappiamo fare.

Ma mai dire mai.

giovedì 8 maggio 2014

Sulla sponda del fiume si son seduti e han pianto

Sempre – disse l’uomo con la barba folta e nera – cosa intendi per sempre – rispose l’uomo senza barba e con gli occhiali – quello che intendi tu per sempre, che poi è quello che intendono le migliaia di persone la fuori come te che si chiedono cosa s’intenda per sempre – sì ma io te l’ho chiesto per sapere quale sia il tuo reale pensiero – tu cosa intendi – te l’ho chiesto prima io – così sei proprio un bambino – e tu non mi hai ancora risposto – sai che in latino molte parole sono senza vocale finale – si, come se non avessero una ringhiera, infatti poi il latino è morto, suicidato, puff, buttato giù da un balcone – ma i latini avevano ragione su molte cose – tipo – tipo la parola sempre – ma allora lo fai di proposito, rispondimi e basta – dimmi sempre in latino – sempre in latino – no, idiota, traducimelo – semper – ecco, vedi, semper non ha ringhiere, semper non si pone dei limiti, semper non ha un carburante che finisce in riserva, semper è libero, libero fino all’infinito e anche oltre – ora finiamo ai cartoni animati – ma anche loro avevano ragione, semper è quel tempo che comincia ma non finisce mai – ah, come quando vai alla posta, sai quando entri ma non sai quando esci – la tua cultura spicciola è disarmante – ma ammetti che ti ho lasciato senza parole – sempre – cosa intendi per sempre.


I due uomini continuarono all’infinito, lui a non capire mai e l’altro a capire troppo, finché l’altro decise di abbandonarlo sulla sponda del fiume che aveva accolto tutte le parole e nessuna parola, quando – Addio – disse l’uomo con la barba – cosa intendi per addio – rispose l’altro, perché le cose è sempre meglio dirle tutte che non dirle mai.

giovedì 24 aprile 2014

Se(m)mai fosse che forse

Mi chiedo a che serve saper amare
se poi la sera non hai braccia in cui morire

Mi chiedo se realmente tutte le parole che diciamo
sono frutto dei silenzi che non mostriamo

Mi chiedo quando e se ritornerò alla vita che era
alle volte che furono
alle mete che passarono
se quando mi guardo indietro sono solo pensiero

Mi chiedo perché da una risata urlata
scappano via tristi i rimorsi

Mi chiedo come un si
mi chiedo come un no
mi chiedo come fossi forse
mi chiedo come se non fossi/e mai.

martedì 8 aprile 2014

C'era una volta un pesce rosso

Caro destinatario,

ma tu che tipo sei? Intendo dire, quale tipo di pelo incombe minaccioso sul tuo divano? Canino o felino? No sai, perché secondo me vale la regola del “dimmi che animale hai e ti dirò chi sei”. Di solito le persone coi gatti sono le più FFFRRRR!, nel senso che hanno gli artigli sempre pronti a scattare per emulazione del proprio animale; i dog addicted sono invece più coccoloni, teneri e “bavosi”, nel senso che magari ti riempiono così tanto di baci che un po’ di scia di saliva ci scappa (ovviamente parlo per esperienza personale; magari a te è capitato tutto il contrario, ma ora parlo io e va così).
Io sono da pesce rosso, e se cominci a ridere giuro che non ti parlo più, anzi, non ti scrivo. I pesci rossi li vedi lì tranquilli tutto il giorno, nella loro boccia o nel loro acquario a seconda che il pesce sia da residence o casa in campagna (sono esigenti i pesci rossi, quasi quasi hanno le pretese dei miliardari) però non sono mai fermi: irrefrenabili, scorrazzano tutto il giorno senza una meta e all'apparenza sono felici, forse perché la loro memoria dura tre secondi e dimenticano pure di andare dalla nonna perché gliel'ha detto la mamma o di annaffiare le piante. 
Gliene vuoi fare una colpa? Io no, so cosa significa avere le giornate intere e la vita stessa perennemente impegnata.
Solo di recente ho scoperto che il pesce rosso ha alle spalle una storia importante: si dice infatti sia nato in una pozza d’acqua, per volere divino, dopo mesi e mesi di siccità ed era portatore di buone nuove... tutto ciò in Cina. E figurati se potesse mancare la mano dei cinesi.
Insomma, il pesce rosso era così sacro che l’imperatore cinese si fece costruire un giardino con annessa residenza estivo/invernale apposta per l’animale (non avevo torto io, allora, quando dicevo che sono viziati) e guai a toccarli con un dito: come si dice, tocca il mio pesce e taglierò la tua mano. Legge del Taglione, semplice.
L’imperatore voleva addirittura mandarli a scuola ma fu costretto a sottostare ai comandi della regina: “scegli, o mandi i tuoi figli a scuola o il pesce... e bada bene, dalla tua risposta dipenderanno anche le nostre notti!”.
La scelta dell’imperatore è facilmente immaginabile... scelse il pesce, perché la moglie non era poi granché e parlava comunque meno della moglie. Molto meno.
Destinati ad essere longevi quasi quanto Maurizio Costanzo, fu subito destinato a girare il mondo ospitato, ovviamente, nelle case dei nobili e delle persone importanti, perché non poteva permettersi di mischiarsi con le semplici alici; una volta venne regalato ad una nobildonna che di nome faceva Pompadour e tra il nome e il “madame ti ho regalato un pesce” sai che risate.
La vera tendenza durante gli anni di Napoleone (e sicuramente ora Dolce e Gabbana saranno invidiosi per non avere avuto loro per primi l’idea) era portare delle bocce con i pesci rossi appese alle orecchie, a mo di ornamento: sicuramente queste donne portavano con sé delle bavette, altrimenti non so come facessero.

Ora: abbiamo appurato che il pesce rosso è un animale regale, sicuramente anche di compagnia e molto apprezzato da ogni fascia d’età, ma… Solo una cosa: per quanto possa amarli, per Natale non farti venire in mente orecchini del genere.

giovedì 3 aprile 2014

Ingegner medaglia d'oro

Caro destinatario,

quando ero piccola, o meglio, quando ero un’adulta bassa, conoscevo un ragazzo che era sicuramente destinato a cambiare il mondo perché era pazzamente geniale: aveva un cervello quanto una mongolfiera, un atleta formidabile, un simpaticone come pochi, ma aveva una pecca: voleva fare l’ingegnere. Ma si, uno di quegli con gli occhiali, i super secchioni che stanno sempre seduti al primo banco per compiacere anche il prof di educazione fisica, uno di quelli che quando fa la spesa usa le derivate per calcolare quanti kili di mele gli serviranno per sopravvivere tutta la settimana e che non compra una t-shirt se la manica non forma un perfetto angolo di 90° con il busto. Io però, da brava adulta bassa, guardavo quell’adulto alto con l’ammirazione che si conviene ai ragazzini nei confronti dei cantanti di Disney Channel, quelli che scalpitano e strepitano quando cantano stupide canzoncine in rima. Per anni il mio debole cuoricino è stato infranto, consapevole che quell’ingegnere avrebbe volato alto e che sicuramente l’avrebbero chiamato dalla NASA per una missione spaziale o che addirittura avrebbe collaborato con l’esercito americano o che ancora avrebbe custodito i segreti dell’area 51 in un ufficio con la targa in oro e il suo nome inciso sopra, urlando “Wattene via!” a tutti quelli che l’avrebbero importunato per portargli quel caffè che proprio lui aveva richiesto. 

D’altronde, gli ingegneri sono così: più sono secchioni, più fanno cose fighe.

Gli anni sono passati e lui realmente è diventato ingegnere, facendo sparire ogni traccia di sé e trasferendosi in qualche borgo nascosto lì nel nord a smanettare con chissà quali e quanti computer super tecnologici.
L’altro giorno poi, mentre passeggiavo tranquillamente per le vie di casa mia, vengo accidentalmente urtata, in modo brusco e sudaticcio, da un uomo che continua imperterrito la sua corsa, senza fermarsi. “Ehi!”, gli ho urlato. L’uomo fa dietro front, con lo stupore disegnato sul volto che per osmosi trasferisce anche a me. “TU!”, gridiamo all’unisono.
Quegli occhiali.. Era l’ingegnere!
“Cosa ci fai qui? Cosa ci fai così?” gli ho chiesto, senza attendere risposta. “Ho deciso di seguire il cuore: voglio diventare un maratoneta! Sono ancora un ragazzino, ho tanta vita davanti e voglio realizzare il mio sogno. Ho abbandonato tutto e ho dato la mia laurea a chi ne aveva bisogno”.
Ero decisamente sbigottita: va bene realizzare i propri desideri, ma quando si ha una certa età bisogna comprendere che con i sogni non si arriva alla pensione.
“devi essere fiera di me: l’altro giorno gliene ho suonate quattro a quello sbruffone di Zenone. Pensava di potermi battere con la sua tartaruga, che stolto! Gli ho concesso 10 mt di vantaggio, ma proprio non ce la faceva a starmi dietro; sarebbe stato un paradosso vero e proprio, pensare che potessi perdere contro una testuggine! Ho portato anche la fiaccola alle olimpiadi, sai? Correvo così veloce che per un momento ho pensato che la fiamma facesse fatica a stare al mio passo. Ah ah ah!”.
Il mio sbigottimento era senza limiti, soprattutto quando mi raccontò di quanto fosse convinto che la birra fosse il “sol che move le gambe e altre stelle”, sostenendo che la sua tartaruga rovesciata gli concedesse la giusta spinta per arrivare lontano e dimostrandolo sempre con quelle famose derivate con cui anni prima contava i kili di mele.
Ah, caro dottor inzignere, quanto ti voglio bene!, ma se continui così farai la fine di Filippide: quell’emerodromo vanitoso corse per ben 42 km, da Maratona ad Atene, morendo stremato appena giunto a destinazione. 

Per questo ti consiglio di tornare a fare l’ingegnere, 'chè sei più utile da vivo che spennato; in caso contrario.. ti serve ancora quella targa d’oro?

lunedì 31 marzo 2014

Le notti in bianco

Caro destinatario,
ma com’è che io ti scrivo sempre e tu non mi scrivi mai? Per ogni lettera che non mi spedisci, passo una notte insonne.
Hai capito già di cosa voglio parlarti? Che sia colpa tua o meno, è un po’ che la notte non ne voglio sapere di dormire. Che faccio? Un bel niente, vago per casa come un’anima in pena, accendendo e spegnendo luci e svuotando bottiglie d’acqua che mi costringono a rialzarmi dal letto qualche ora dopo, quando mi sembra d’aver trovato un po’ di pace. Nella maggior parte dei casi invece sono pigra e mi dedico a quella che è la vera e propria accezione del termine: meditazione tra la vita e l’inspiegabile. Ma certo, ancora ti meravigli? La notte è la culla dei discorsi non scritti, quelli che trapelano tra le pieghe delle coperte, quelli che “meno male che nessuno mi sente, sennò..”, quelli che invece “meno male che ci sono, altrimenti chissà cosa ne sarebbe della mia amara esistenza”. Quelli che la mattina dopo ti ritrovi con certe occhiaie che neanche le buche di via Martina.
Una notte, ormai turbata dal mio desiderio inascoltato di dormire, ho acceso il pc e ho fatto qualche ricerca sul caso e ho scoperto che gli amici Greci (te li ricordi? Quelli dell’otium.. pare che alcuni di loro non riuscissero ad oziare neanche di notte) vedessero il sonno come un bambino che, gaiamente, correva felice per la terra con un papavero nella mano sinistra e un contenitore nella destra, piena di succo dello stesso, per dare riposo agli uomini. Un po’ mi sono arrabbiata, perché sicuramente il bambino-sonno rispecchia l’uomo o la donna assegnatogli, ragion per cui il mio è sicuramente caduto prima di portarmi il succo. 
Qui, comunque, c’è poco di cui scherzare: quando accanto alla parola insonnia leggi quella di Zeno Cosini, allora realmente c’è qualcosa che non va. Ho pensato alla possibilità che l’insonnia fosse sinonimo d’inettitudine, perché durante la notte ti sobbarchi di tutti i problemi che il giorno non sei riuscito a risolvere e te li porti dietro fin quando non sopraggiungono i “rintocchi delle prime campane”. 
Il mio Kafka ne soffriva tremendamente, allora cominciava a scrivere e le ore passavano. 
«Domenica, 19 luglio 1910: dormito, destato, dormito, destato. Vita miserevole. 21 luglio. Non posso dormire. Soltanto sogni e niente sonno. 2 ottobre. Notte insonne. Già la terza in fila», questo appuntava nelle sue lettere. Devastato, quando ormai non ti resta altro che la tua vocina nella testa, ironicamente disse che “dopotutto, qualcuno che rimane sveglio ci vuole”. E ci vuole si, ma perché sempre io?

Il dio Enhil perse il sonno perché gli uomini sulla terra cominciarono ad amarsi rumorosamente (e che facevano, scrivevano Ti amo sull’asfalto coi martelli pneumatici?); l’eroe Gilgamesh invece venne alla luce proprio senza sonno, era nato per non fermarsi mai. 
I poeti romantici volevano dormire, ma le canne, ahimè, erano una tentazione troppo potente per evitare di viaggiare ed esplorare mondi sconfinati. Putten di vizij.
Chi non dormiva per volontà d’altri era Balzac, che poverino doveva lavorare e lavorare perché si doveva sposare e senza soldi non si va da nessuna parte.

Ne ho letti così tanti che potrei fare una lista lunga quante le ore che ho passato sveglia tutte queste notti, però di una cosa sono grata a questi poveri giovani: leggendo le loro mirabolanti sventure, mi son girata dall’altra parte e mi sono messa a dormire. E' un'antica tecnica, si chiama "Ci ma fesh fa": la conosci?

mercoledì 19 marzo 2014

Mi fa male il mondo

Caro destinatario,

com’è vero che non tutti siamo fatti per stare con tutti, allo stesso modo è anche vero che ad ognuno spetta una sorte differente a seconda del carattere che gli è stato assegnato anni addietro (chi più e chi meno).
Io, ad esempio, credo d’esser fatta per le gioie da una toccata e fuga, quelle che sono come le scie degli aerei nel cielo: belle ma che sfumano in fretta. Quel che mi sono chiesta stamattina è se esiste un tipo di felicità che resta impressa come i nei sulla pelle, eppure anche questa ha il suo che di negativo, perché i nei possono diventar maligni, fare male, provocare dolore. Può chiamarsi felicità, quella?
Mi sono anche chiesta come mai ad attimi radiosi seguono sempre attimi in cui il sole sparisce chissà dove e mi son domandata perché fossi fatta in quella maniera, perché un sorriso non può durare per sempre, perché i miei nei non possono restare solo punti di bellezza e di colore in questa vita monotona. L’unica risposta che sono riuscita a darmi è che probabilmente ho preso il “vizio” di farmi influenzare troppo dagli eventi e dalle parole che per caso toccano le mie orecchie e, quando questo accade, arriva il punto in cui non sei più padrone dei tuoi pensieri ma sono loro che governano te e non puoi fare nulla per evitarlo. Non c’è soluzione che tenga, nessuna scappatoia perché non si scappa mai da ciò che fa male, perché il dolore si aggrappa alle gambe come i bambini che vogliono giocare ed esser trascinati ovunque tu vada, solo che il dolore non gioca, il dolore fa male e basta. Così lo accetti, ti adatti e quasi ti abbandoni a quel tuo essere così come sei perché non puoi evitarlo, perché non sei un disegno che puoi modificare come e quando vuoi. Sei fatta per una vita in cui non ti è dovuto nulla ma a cui devi tanto, su questo non ci piove. Piove invece sui pensieri, sulle scorciatoie che non puoi prendere, sui muretti che non puoi superare. Piove quando sei felice per le cose materiali ma un attimo dopo ti hanno già stancata perché tutta la frizzantezza è passata e adesso ti senti vuota e con una cosa in più tra le mani. Piove quando chiami il tuo papà per dirgli che gli vuoi bene e quant’è speciale, non solo oggi ma sempre, e pensi che lui non può fare lo stesso perché quella piccola felicità gli è stata negata, allora per un po’ me la nego anch’io perché forse condividere la tristezza è un ottimo modo per sentirla più leggera. Piove sempre quando ti rendi conto che piangi per cose inutili quando c’è chi le lacrime nemmeno le ha più. Allora a che serve? Eppure è inevitabile.
Siamo fatti così, ognuno a suo modo. Chi ha tutto e non è felice, chi ha niente e non è felice e viceversa in entrambi i casi. Siamo fatti così ma è tutta colpa della mente che non sta mai ferma (e beati quelli che se ne fregano e non pensano a niente) perché per colpa sua hai un briciolo di felicità in meno e un’occhiaia nera in più, perché la tristezza non ti fa dormire, la tristezza fa rumore. 

Va così. 

Attimi di eterno dolore e brevi sprazzi di felicità. Se solo avessimo occhi che vedono meno e cuori che battono di più.. eppure saremmo tristi lo stesso, camminando inconsapevoli del male che calpestiamo. Allora va bene così.                   

venerdì 14 marzo 2014

I filosofi del "mai una gioia"

Caro destinatario,

di rientro a casa, dopo una giornata di lavoro “matto e disperatissimo”, pensavo che questa vita non mi sta riservando neanche una gioia. Non azzecco la schedina, a lavoro non vinco i buoni benzina e per strada non mi imbatto neanche in una misera moneta da 1 centesimo, ragion per cui mi sono rassegnata al fatto che tutte le fortune del mondo mi evitano proprio volontariamente. Pensandoci poi meglio mi son detta che la mia non gioia è incrementata dal mio atteggiamento super negativo nei confronti degli eventi che incorrono sulla mia strada e questo è deprimente, dato che in buona sostanza la mia mancata gioia è proprio colpa mia. Vero è che spesso ci lamentiamo non pensando che c’è gente che se la passa peggio di noi. Prendi quel povero cristo di Sisifo, per esempio: un uomo la cui vita ha regalato ingegno, furbizia ed intelligenza attirando l’invidia e la collera degli dei, che in fondo sono come la gente del Paese, non puoi fare nulla che subito ti parlano dietro e ti lanciano affascini. Così il giovane si ritrova, dall’oggi al domani e senza capirne niente, a dover spingere un masso su per una montagna alta quanto l’invidia e i pregiudizi della gente ed arrivato in cima, PUFF, il masso sparisce e ricompare ai piedi della montagna. “Mai ‘na gioia!”, dice Sisifo scendendo e rassegnandosi all’idea di dover azzerare i suoi sforzi.
Un altro povero disgraziato portava il nome di Søren e lui si che era malinconico (oltre che malaticcio e irritabile): se provavi ad avvicinarti e chiedergli cosa avesse, ti rispondeva che il padre aveva maledetto dio per le sciagure che gli capitavano e ora lui era soggetto proprio alla maledizione divina. Risposte del genere non te le aspetti da un bambino ma lui era tutto particolare. E guai a toccargli la sua saponetta preferita, l’amava come se fosse la sua Regina. Che angoscia di ragazzo.
Tramite Søren ho conosciuto Marcel, un pazzo: girovagava per le ferrovie e le miniere con una lente d’ingrandimento e un metal detector perché doveva ritrovare il tempo perduto e non tornava a casa finché non portava a termine il suo compito; una volta arrivò fino in Messico, facendo tardi per la cena. In primavera, poi, lo riconoscevi anche a chilometri di distanza perché cominciava a tossire per via dell’allergia al polline ma era così testardo che neanche questo lo fermava. Dimmi tu se questa è una non gioia.
E poi, come non menzionare Franz: il povero giovane ha sempre sofferto la mancanza di un padre presente e amorevole e per questo non è mai riuscito ad integrarsi completamente con i compagni di giochi. Aveva un fisico troppo minuto perfino per avere un cane e portarlo a spasso perché sicuramente sarebbe scappato via e la morte troppo prematura di un pesce rosso avrebbe potuto compromettere la sua già chiusa personalità, per questo chiese che gli venisse regalato uno scarafaggio: piccolo e facile da pulire. Purtroppo però riuscì a scappare dalla teca in cui viveva e, nel cercarlo, Franz lo calpestò. Non potendo parlare e sfogarsi con nessuno, non poté mai sviluppare appieno le sue capacità discorsive finendo per dire una cosa per un’altra e i suoi ragionamenti e pensieri restavano indecifrabili e indicibili. Un incompreso in tutti i sensi, insomma.
Arthur invece non sono mai riuscita a conoscerlo, rifiutava i contatti umani come non ho mai visto fare e girava con una cera assurda. E dire che il padre e la madre l’hanno sempre fatto studiare e ha visto tante di quelle città che neanche il Giro del Mondo in 80 giorni ma si sa che i ragazzini viziati vogliono sempre di più.

Come vedi, caro destinatario, io mi lamento ma non è che i miei amici siano tanto più allegri. Non è forse vero che siamo le persone che frequentiamo?         

lunedì 10 marzo 2014

L'amore è morto



Caro destinatario, 
l’amore è morto.
Si, hai capito bene, senza se e senza ma, l’amore è morto e non se n’è accorto, o forse se ne è accorto e sta piangendo solo e sperduto in qualche angolino o proprio avanti a noi ma noi non lo vediamo perché ormai troppo presi a badare e/o fare altro.
L’amore è morto, caro destinatario, e non cercare di dissuadermi dal pensarlo. Ne ho avuto consapevolezza mentre mi asciugavo il gatto morto che mi ritrovo sulla testa (farlo in piscina diventa un’impresa per quei poveri ragazzi che ci lavorano e che non vedono l’ora che mi tolga dalle scatole per poter andare anche loro a casa) e pensavo a quale potesse essere, in media, la percentuale di amore che si spegne ogni giorno; immagina un grosso, enorme mappamondo, tipo quelli che si vedono nei film di spionaggio, d’azione insomma, dove uno schermo monitora in tempo reale tutto quello che accade nel mondo in quel preciso istante (tempo reale, ma quanta fantascienza però). Dicevo allora di questo schermo, che poi hai presente i cartoni animati che danno sotto Natale e che mostrano perennemente un Babbo Natale in crisi perché sempre meno bambini credono in lui e le lucine che li rappresentano si spengono una ad una (sempre in quel famoso tempo reale; che poi, che ora è il tempo reale?) e che, puntualmente e miracolosamente, riesce a recuperare tutti? Ecco. Immagina l’amore come tanti puntini sparsi sul pianeta e sto dando per scontato che tu non sia razzista e che immagini davvero TUTTO il mondo conosciuto e non, povero e meno povero, pieno di luci d’amore. 
Fatto?
Bene, bravo, vedo che mi segui. Ecco, ora immagina un bambino che spegne, a caso, una lucina dopo l’altra. Non ci crede più.

Così muore l’amore, senza troppe cerimonie. 

Muore quando nessuno comincia più a credere in lui, eppure non vedo lacrime, nessuno urla come il celebre Gott ist tot*, tutti si lamentano ma nessuno fa nulla. Mi ricollego, a proposito, a un’altra morte celebre, giusto per rendere l’idea:

"Dio è morto. Dio resta morto. E noi l'abbiamo ucciso. Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?"

Alla fine, la differenza non è difficile da vedere se pensiamo a quanti vogliono vedere nella frase “dio è amore” tutto il fondamento della vita. Procedendo per semplice ragionamento aristotelico, se dio è morto e dio è amore, allora amore è morto. Tutto qui. Amore resta morto e noi l’abbiamo ucciso. Basta meravigliarsi di tutto il dolore presente nel mondo; basta puntare il dito contro le colpe degli altri. Abbiamo ucciso l’amore nel momento in cui abbiamo preferito Ego e il dio denaro a tutto il resto. L’abbiamo ucciso quando ci siamo rifiutati di tendere una mano, quando abbiamo voltato le spalle ad un amico, quando abbiamo ignorato una richiesta di amore. Come l’amore non ha bisogno di teatri per nascere, allo stesso modo non ha bisogno di orchestre per morire. L’amore è morto e se n’è accorto, noi l’abbiamo ucciso senza ancora saperne il perché.

Caro destinatario, convieni con me che la vera crisi è quella del cuore? O sono io che, disillusa, cerco solo una ragione che giustifichi tutto il male in cui siamo costretti a vivere? 



*Dio è morto, celebre aforisma di Friedrich Nietzsche.

venerdì 28 febbraio 2014

Straordinaria mente



Caro destinatario,

la mia pausa di questi giorni è scaturita da alcune riflessioni conseguenti la lettura delle mie lettere a te. Capita spesso che lavori di cui siamo orgogliosi, a distanza di tempo, appaiano scabri e privi di nesso logico; son addirittura arrivata a pensare di non meritare quelle parole che capitavano nella mente come flash improvvisi e che legandosi con altre, formando una danza apparentemente bellissima, creavano poi catene lunghissime i cui estremi finivano chissà dove. Forse il ripudio per qualcosa che nasce dalla nostra anima è lo step necessario per la completa accettazione di essa stessa, seppur con molta fatica.. ma questo lo scoprirò più avanti.

Quello che stasera mi ha spinto a tornare a scriverti (anche se non ho mai spesso, nonostante la mancata forma concreta e ufficiale) è stata la guerra sinapsiotica che è scoppiata nella mia testa durante una comune conversazione con mia madre. Lei ha sottolineato, parlando della gente, le parole “persone normali” ed io mi sono chiesta chi fossero queste “persone normali”.
Le persone normali sono forse persone ordinarie? Sicuramente sono nella norma, senza peculiarità alcuna che li esalti e li distingua da quella stessa massa standardizzata che si è creata nella mente di mia madre con quella espressione, in quanto inevitabile nasce il collegamento dell’immagine astratta con la materia concreta.
Le persone normali sono sicuramente persone ordinarie con case ordinarie e lavori ordinari.. o quelle sono persone fortunate? E certo, perché la nostra era è caratterizzata dalla lotta quotidiana contro tutto e tutti per arrivare al giorno dopo, l’era dell’Homo homini lupus, nonostante ci si aspetti sempre migliori condizioni di vita dalla sempre maggiore (e fittizia) civilizzazione dell’uomo. 
Le persone normali sono quasi certamente persone che nonostante abbiano perso tutto, nell’amore della famiglia trovano ancora un posto caldo in cui rintanarsi quando neanche le mura fredde di casa possono risollevare l’animo.
Le persone normali sono quelle che, nonostante le tante porte chiuse, non smettono di lottare, perché le persone normali sono persone forti anche quando non hanno più forza. Le persone normali le vedi sorridere di fronte alle avversità perché vogliono che il loro domani sia positivo, se non può essere migliore.
Le persone normali trovano sempre una soluzione perché hanno le mani che profumano di dignità.
Le persone normali sono persone tra le persone, persone con le persone, persone per le persone. Le persone normali conoscono la fatica del duro lavoro ma sanno anche quanto sono belli i suoi frutti. Le persone normali non mettono mai loro stesse al primo posto perché sulle spalle hanno la famiglia.
Le persone normali sanno piangere. E che ci vuole, dirai, anche il coccodrillo piange. Ma sai come piange una persona normale? Piange di nascosto ai figli, perché non può garantire loro il domani, figuriamoci il futuro. Piange perché è una persona normale e non una macchina, ha sentimenti normali e una forza straordinaria. 
Con che coraggio possiamo definire queste “persone normali”? Certo, magari dall’altra parte del mondo nessuno conosce il loro nome ma sicuramente tutti conoscono le loro storie, perché le persone normalmente straordinarie lasciano il segno anche nell’ordinarietà. Proverai sempre dispiacere per le persone normali ma anche tanta ammirazione perché, come scrisse Andrea de Carlo “Le persone più interessanti sono sempre il frutto di situazioni complicate”.
Son belle le persone normali, sono loro gli eroi del nostro tempo, ed io scrivo a te che so che capisci cosa vuol dire racchiudere la bellezza dell’umile normalità. 
Siam tutti capaci di diventare straordinari, la vera sfida sta nel continuare ad esser capaci di meravigliarsi di fronte alla semplicità.

mercoledì 12 febbraio 2014

Lettera alla madre

Cara mamma,

recentemente mi è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te, di rendermi conto che è difficile per me riconoscere il momento in cui ti ho perduta pensando di non averti mai incontrata. È stato difficile persino aver paura, perché non essere all’altezza può essere il male che ti logora nel profondo e che arduamente si cava via. Sono state tante le volte in cui credevo che la rottura fosse lo step obbligatorio per passare dall’essere entità distinte e separate al riconoscersi figlia nel corpo di madre e madre nel corpo di figlia. Sono stati momenti in cui ti ho vista inerme dinanzi alla forza della natura che scorreva feroce e violenta dentro di me e che a me stessa sembrava turbolenta e inarrestabile ma che mi faceva sentire un gradino più sopra, forse più grande, forse più come te. La mia è stata un’adolescenza sbagliata, giacché nel tuo aver fiducia e nel tuo credere nella mia maturità sono invece stata la tua più grande delusione. C’è chi potrebbe vedere la cosa come la genetliaca reazione del corpo e della mente tutta dinnanzi ad aspettative spesso troppo grandi per mani da bambina: il capriccio adolescenziale. Il fatto, cara mamma, che il mio ostinarmi a farti capire che non fosse un capriccio è esploso nella mia stessa convinzione che stessi vivendo una vita più grande delle mie tasche ed è accaduto quel che avviene quando si ripete, perentoriamente, la stessa bugia: finisci per crederci davvero. Quel che mi chiedo è se tu, nel tuo immenso e preparato essere madre, una cosa del genere avresti immaginato potesse mai accadere. Forse si, ma non te l’aspettavi. Non parlo con voce di chi va fiero di essersi sentito per un po’ pecora nera ma con quella di chi non è riuscito a svolgere il ruolo assegnatogli senza saperne ancora il perché; per questo mi chiedo se la tua esperienza possa rispondere alla mia domanda. Non ne voglio parlare ma voglio sapere, è un qualcosa a cui penso quando mi chiudo nel buio della mia camera che mi ha accolta adolescente acerba e mi ha risvegliata donna matura. A mio parere tu lo sapevi ed eri pronta senza sapere quanto saresti stata forte a causa di tutte quelle notti piene di pensieri martellanti ed incessanti che non ti facevano dormire ed io che mi sentivo in colpa senza sapere come smettere perché di certe forze non ti liberi facilmente, o almeno cosi pensavo. Io avevo paura di te quando pensavo che forse non avresti mai potuto poter perdonare tutte quelle mie mancanze e che io stessa non avrei mai ricreato quell’immagine che non ho mai visto e che figurava nella tua testa. Chissà come mi immaginavi e come mi avevi trovata, se la ragazzina ribelle aveva comunque i boccoli biondi e le guanciotte paffute. Eppure non ho mai pensato ne voluto essere una ribelle in quel senso, ero semplicemente ciò che la testa o il cuore mi dicevano di essere, ma ai tuoi occhi forse non ero nient’altro che niente. Sentivo d‘aver perso il mondo che mi avevi donato e sono diventata adolescente donna nel momento in cui ho capito che il fine della mia esistenza era riappropriarmene. Difficile dire quando ciò è avvenuto ma non ti nascondo che, non conoscendo quanto lontano potesse arrivare l’amore di una madre o, meglio, di mia madre, i passi indietro sono stati per lo più tentoni pesanti che hanno lasciato dei solchi sulla strada. Ti ho ritrovata esempio, porto e sostegno. Ti ho ritrovata che avevi le braccia più grandi di quelle che avevo lasciato e che quasi avevo dimenticato quanto calore potessero emanare. Difficile dire quanto è stato duro per te accantonare quel segreto e riprendermi nelle mani ma è semplice, tanto semplice, riconoscere il momento in cui ti ho ritrovata più mia, più stretta, più simile a me.

lunedì 10 febbraio 2014

Nosce te ipsum

Caro destinatario,
ho sempre pensato che porsi degli obiettivi fosse un modo per andare avanti facendosi coraggio senza bisogno (di) alcuno; pensavo fosse un modo per seguire una strada piuttosto che un'altra, quando tutte le frecce indicano le direzioni più disparate, e invece capita di scorrere i giorni come le pagine di un diario, o di un quaderno vuoto, e mi sembra di farlo senza darci peso. Mi rendo conto solo ora di quanto mi sembri lontano il nuovo anno, quando ho giurato a me stessa che questa volta sarebbe stata diversa, che sarebbe stato l’anno del riscatto, della rivincita, della gara con me stessa se vogliamo, dato che il clima olimpionico lo permette. Ho giurato a me stessa che io sarei stata il mio obiettivo, chiudendo tante di quelle porte che non poche volte mi son sentita in dovere di chiedermi se quella fosse la scelta giusta per me. In fondo sono quasi una neofita della vita, cosa posso saperne io delle cose di cui potrei pentirmi? Io, caro destinatario, non so se sai di cosa sto parlando, se almeno una volta ti sei sentito come me, ma ti confesso che non ho voluto scriverti perché sento d’aver perso qualcosa che in questo momento non mi rende capace di riconciliarmi a te. Facendo un passo indietro, vorrei rettificare che ho sempre pensato che porsi degli obiettivi fosse un modo per avere più paura. Elementare, come ho fatto a non esserci arrivata prima: quando hai un bersaglio avanti a te, più o meno lontano, la tua paura più grande è quella di non centrarlo e non importa quante convinzioni hai perché ci sarà sempre quel margine di dubbio che ti farà ricredere sulla tua possibilità (anche minima) di riuscita. Avere un obiettivo ed avere paura vuol dire aver intenzione di comprare un vaso di cristallo e temere di romperlo tornando a casa, con tutte le precauzioni possibili che si possano prendere. Non capendo nulla ho invece capito qual è l’altra sfaccettatura del vivere quotidiano: salire sul trampolino e tuffarsi privi della certezza di tenere il busto o le braccia nella posizione corretta, ma avendo comunque il coraggio di spingersi oltre. 

Non ho mai capito come si faccia a vivere senza sogni. Li vedi lì, alcuni, che corrono all’impazzata cercando il proprio senza trovarlo mai; altri seduti su una panchina con il sogno stretto al petto, poggiato sulle gambe perché forse un po’ pesa, ma senza muoversi mai. I più fortunati stanno nel mezzo, magari lo trovano ma questo inizia a correre non perché non voglia farsi prendere ma perché ti sta regalando una gioia più grande, la soddisfazione dell’essertelo guadagnato. Eppure anche qui ci son quelli che corrono e corrono senza raggiungerlo mai e quello secondo me è un vivere a stenti, a tentoni, un “è bravo ma non si applica” detto dall’insegnante ai soliti colloqui di scuola. Io ho paura di quel vivere, ecco. L’aver paura di perdere dovrebbe essere il male del secolo ma, oggi come oggi, è pretendere troppo. Dovrebbero tutti correre inseguendo se stessi perché in fondo i nostri sogni sono la chiave astrattamente concreta di quel che abbiamo dentro, che non si accontenta di quel che riusciamo a strappare ma punta sempre più verso il centro. Sant’Agostino diceva Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas, che tradotto sarebbe Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell'uomo che risiede la verità. È lì il segreto, perché sapere la verità è rendersi felici, è avere la chiave per aprire non una porta ma LA porta. La verità rende chiara qualsiasi cosa, la verità ti concede un potere così grande che a spiegarlo è pure impossibile. Se hai la verità hai te stesso, perché vuol dire che ti conosci senza troppi giri di parole, che sei arrivata all’oikeiosis (ah, quei furbacchioni degli stoici: loro l’ozio lo chiamavano “meditazione per il raggiungimento della synaesthesis, percezione interna”, roba d’alto livello) e quindi alla piena realizzazione di te medesimo. Non hai una vita di stenti, hai certezze inequivocabili.. e chi non le vorrebbe. Il segreto sta nel continuare ad avere coraggio, perché son sicura che continueranno a non mancare quei momenti in cui mi sentirò tirare giù dopo il tuffo dal trampolino, e ad avere fiducia in se stessi perché siamo noi la forza che muove il nostro mondo, anche quando tutto sembra fermo.

martedì 4 febbraio 2014

Crestomazia

Caro destinatario,

inequivocabile è la velocità con cui sta scorrendo il tempo. Mi sembra ieri che aprivo gli occhi al mondo, ieri che brindavo al nuovo anno e quasi quasi devo già dirgli addio.. no vabbè, così tragico non è, ma è per farti capire come possa stupirmi del veloce passare dei giorni, delle ore, dei minuti. Volevo aprire la lettera in altro modo, ma scrivendo la data è stato questo il primo pensiero che mi è balzato alla mente. 
I diversi avvenimenti che mi hanno toccata più o meno da vicino in questi giorni mi hanno lasciata riflettere su quanto, nella nostra uguaglianza, possiamo essere diversi. Magari abbiamo tante cose e persone in comune, ascoltiamo la stessa musica, ma poi capita quell’unica e sola parola che ti fa ricredere su tutto il mondo che avevi creato sinora. Ti è mai successo? Forse resto stupita perché non sono più così accondiscendente come un tempo, non mi lascio più passare nulla addosso e le parole non riesco più a trattenerle (tranquillo non parlo a sproposito, conto fino a dieci prima di esprimermi). Mi rendo conto di quanto sia difficile sciogliere un pensiero quando ormai si è insinuato nella testa e forse, anzi sicuramente, la stessa cosa succede a me ma non sono ancora troppo autocritica per notarlo. Però lo sto ammettendo, è già il primo passo. Sai quanta rabbia, invece, quando cerchi un sano confronto ed invece ti ritrovi a sbattere contro una parete di cemento armato? Allora altro che diamanti, se i pensieri fossero concreti come rocce di certo sarebbero indistruttibili e scagliati fanno più male che bene. 
Mi hanno sempre insegnato, caro destinatario (e penso anche a te, dato che mi ascolti così clementemente), che quando non si ha nulla da dire è meglio restare in silenzio e che quando invece qualcosa la si vuol spiccicare è bene avere qualcosa su cui poggiare i piedi, in modo tale da non cadere o comunque da farsi meno male. Io questo l’ho imparato a mie spese e l’ho imparato perché qualcuno mi ha monito a farlo, allora perché ancor oggi ci si trova a dover lottare contro chi sente proprio la necessità di aprir bocca e favellare come se non ci fosse domani? È un dubbio che mi attanaglia da giorni e lo dico a te perché spero che magari tu possa aiutarmi, aprirmi gli occhi, illuminarmi!, per lo meno. Dici che è una sfida persa? Probabile, però pensa alla perdita maggiore che potrei averne se invece accettassi tutto a prescindere. Io come sono adesso non potrei farlo. Finchè si hanno parole per combattere è bene che si combatta, perché (citando Montesquieu) mi considererei il più fortunato dei mortali se riuscissi a guarire gli uomini dai loro pregiudizi. Pregiudizio io chiamo non già il fatto di ignorare certe cose, ma di ignorare se stessi.

giovedì 30 gennaio 2014

Crispianeme

Caro destinatario,
certo non sono mancate le volte in cui ho citato, tra le mie lettere, il mio paese o frasi nel mio dialetto, dando per scontato che potessi vedere le immagini che si creavano nella mia mente o capire quello che volevo dirti. Una lettera, in particolare, ti è stata scritta spinta dal pensiero di quel che sarebbe potuto accadere se fossi andata via e non di rado scrivo sollecitata dalla malinconia. Andar via e abbandonare luoghi che conosco come le mie tasche, che potrei attraversare ad occhi chiusi sarebbe davvero terribile ma a volte risulta indispensabile. Curiosa mi è parsa, allora, la nascita di un gruppo sul social che è così famoso che non ha neanche bisogno di nome, perché l’icona già figura nella mente, e che appunto riporta il nome del mio paese. Sei di Crispiano se.
La catena di scambio formatasi è stata così forte quanto incredibile, che il telefono riportava sempre una notifica attiva, che ti connettessi alle dodici del giorno o alle undici la sera e non ti nascondo che la cosa mi ha davvero riempita di calore. Passeggiando per Crispiano, poi, ho avuto una sensazione diversa dal solito, era come se chi mi stava davanti, chi mi camminava accanto o chi si apprestava ad entrare in casa avesse con me qualcosa in comune che probabilmente ho sempre dato per scontato: la terra natia. Strano come ci si possa sentire più vicini se solo si pensa che abbiamo esperienze di vita comune o che i nostri piedi hanno calpestato le stesse strade, chi da dieci, chi da venti e chi da cinquant’anni.
In un primo momento mi sono limitata a leggere quasi superficialmente, poi è nata la curiosità sempre maggiore di sapere “ma ce cos ten’n tant da dish’r?”*, perché i nomi che comparivano nel gruppo erano sempre diversi, magari con meraviglia di chi neanche pensavi fosse registrato sul network, e di lì son cominciati a comparire i sorrisi perché mi rendevo conto che quel dialetto io lo capivo bene e (spesso, non sempre) riuscivo a concretizzare momenti raccontati in luoghi che ancora persistono. Son tornata indietro di tanti anni, anche a momenti a cui mi capitava di ripensare ma che magari accantonavo come niente; mi è venuto in mente il vecchio centro storico in cui abitavo da bambina e tutta la zona di Crispianello che adoravo in tempo natalizio o le volte in cui facevo avanti e dietro da Minerva perché compravo un quaderno ma dimenticavo la penna, ed il panico le prime volte in cui ho avuto a che fare con la vecchia Lira perché non sapevo quando mi spettava il resto e quando no; e il richiamo che ancor oggi non riesco a capire di Alessandro il fruttivendolo, che certamente annunciava in modo inconfondibile la sua presenza! Se ci penso ora mi vien da sorridere. Tantissima, poi, la gente nominata e che nemmeno conosco, seguita dai tanti soprannomi che rendono conoscibile l’ignoto, quando per cognome non ti conoscono ma se dici il soprannome allora diventi famoso. Che poi, chissà com’è che ti conoscono bene col soprannome.. chissà cosa dicono!
Non celo la malinconia nata leggendo post di anni in cui non esisteva neanche il pensiero di me, foto in cui la piazza era diversa, la posta non era la posta di ora e la villetta era tutt’altra storia. Io non c’ero ma ci volevo essere. Se penso alla Crispiano quando non c’ero, la prima cosa che mi viene in mente sono le strade gremite di gente che passeggiano, cosa che solerte mi raccontava mia madre, e che adesso non vede neanche anima viva.
“Crispianeme” è bella se la vivi. E’ bella anche quando te ne lamenti, “manca questo, quello è difettoso”, ma è bella proprio perché forse senza tanti difetti non sarebbe la culla della nostra vita. Crispiano è bella perché accomodante, è bella perché quando te ne vai senti che ti manca, è bella perché quando ne parli e stai fuori paese dici pure che ha ventimila abitanti ma non per esagerazione ma perché effettivamente ti accorgi che dentro di te è grande.
Sono contenta di aver conosciuto e di continuare a conoscere il mio paese. Ovviamente, ma che te lo dico a fare, non ho citato assolutamente nulla perché son così tante le vie, così tante le persone che ci sono e non ci sono più che ci perderemmo in chiacchiere per giorni e giorni (e sta già accadendo) ma, d’altronde, va bene così. Crispiano è bella perché non basta una vita per conoscerla tutta. Crispiano è bella perché è mia.


“Cr’spien quant m cosh
Cr’spien m fesh suffrì
Cr’spien ji non m n fosh
Cr’spien.. do agghija murì.”

https://www.youtube.com/watch?v=uk-xzSb2DVY

*ma cos'hanno tanto da dire?