Caro
il mio destinatario,
meno
male che ci sei.. o che non ci sei. Insomma, umpf. Ti odio di nuovo, arrivati a
questo punto (o iniziando da questo punto) comincio sempre ad odiarti. Mi sento
come quel tipo col teschio in mano, come si chiama, dai aiutami, quello del
dubbio amletico.. boh, vabbè. Quello la notte mica dormiva, faceva avanti e
dietro nella sua stanzetta, su e giù per le scale del castello, tant’è che la
mamma non gli diede più la paghetta per ricomprare i tappeti che aveva consumato
per il tanto camminare. Essere o non essere.. o sei bianco o sei nero. Eppure penso
che in medio stat virtus quindi, che
tu sia o non sia, esisti, concretamente o idealmente, ed io ti conosco
indipendentemente dall’esperienza e dall’impressione sensibile. Che fa Kant,
ah?
Eh,
però se ogni volta devo giustificare il tuo essere o il tuo non essere, non la
spicciamo più. Si, lo so che non sei tu a chiedermelo, ma sembra strano ogni
volta rivolgermi a te come ad una persona reale. Mi prometti che, se un giorno
decidessi di farti carne e ossa, verrai subito a trovarmi? Pure per dirmi “nah,
sono io, basta che la finisci”, e giuro che dopo il “Caro” metto il tuo nome e
me la finisco.
Sai
cosa, o meglio, chi potresti essere? Un musicista, un suonatore! Sai quanto
sono generosi quelli che lavorano la musica? Ti danno tanto e non ti chiedono
niente. Alcuni di loro diventano il tuo psicologo personale, ti leggono dentro e
ti tirano fuori cose che nemmeno tu sapevi ci fossero. Sai quanta magia hanno
nelle loro mani? E quando dalle mani passano alla voce, senti un calore che ti
avvolge e ti senti piccola, come se avessero scoperto il tuo segreto e lo
stessero urlando al mondo. E poi hanno quella voglia di fare, quella voglia di
inventare, che se ti passasse accanto una nuvola di pioggia nemmeno te ne
accorgeresti. Sono i medici che curano qualsiasi tristezza, qualsiasi magone, e
la loro riconoscenza è la nostra voce che cammina con la loro. Belli.
In
un’altra vita, probabilmente, imparerò a suonare uno strumento, in questa già è
tanto che azzecco il bottone giusto del citofono. Oppure diventerò una filosofa.
Tu ridi, io parlo seriamente! Sai come funzionava ai tempi dei Greci o dei
Romani? Si, lo so che non c’eri e nemmeno io, ma te lo racconto comunque.
In
quel tempo, a Roma vigeva un governo fatto di persone potenti e di un certo
ceto sociale, un po’ come adesso, e proprio come ora i suddetti non facevano
una beata mi..seria tutto il giorno.
“Mamma
mia, questi ci giudicano”, diceva uno, “dobbiamo inventare un modo per oziare e
non dare nell’occhio”, e da qui la parola otium.
Cosa facevano quelli che otiavano? Andavano a teatro, facevano sport, e il
tutto per pura ricerca intellettuale.
“Padrone,
posso oziare anche io? Voglio trovare me stesso”
“Puah!
Schiavo, tu lavora! Non credere che sia cosa facile, non tutti possono
sopportare le fatiche della mente!”, perché ovviamente oziare era una
professione riservata a un’élite di prescelti. Meno male che il buon vecchio
Catone fu restìo a questa tendenza, dicendo che i giovani erano viziati. Di qui
il detto “l’ozio è il padre dei vizi”. E non credere che Orazio fu tanto
illuminato, che il Carpe Diem gli venne in un momento in cui sopraggiunse la
stanchezza e “colse l’attimo” per farsi un pisolino. Eppure gli oziatori a
livello agonistico erano tutti adorati, tutti visti di buon occhio. Erano i
saggi, quelli a cui rivolgersi in caso di malessere, come i musicisti! Stai
male e ricorri alla saggezza della musica. Ecco, proporrei un otium musicale, così tutti son contenti
e Nessuno può dire niente, che tanto pure lui si appisola mentre se ne va in
giro per mare con i compagni mentre la Signora Nessuno è a casa a filare e
sfilare le mutande. Quelle del marito, d’intende.
Nessun commento:
Posta un commento