giovedì 24 aprile 2014

Se(m)mai fosse che forse

Mi chiedo a che serve saper amare
se poi la sera non hai braccia in cui morire

Mi chiedo se realmente tutte le parole che diciamo
sono frutto dei silenzi che non mostriamo

Mi chiedo quando e se ritornerò alla vita che era
alle volte che furono
alle mete che passarono
se quando mi guardo indietro sono solo pensiero

Mi chiedo perché da una risata urlata
scappano via tristi i rimorsi

Mi chiedo come un si
mi chiedo come un no
mi chiedo come fossi forse
mi chiedo come se non fossi/e mai.

martedì 8 aprile 2014

C'era una volta un pesce rosso

Caro destinatario,

ma tu che tipo sei? Intendo dire, quale tipo di pelo incombe minaccioso sul tuo divano? Canino o felino? No sai, perché secondo me vale la regola del “dimmi che animale hai e ti dirò chi sei”. Di solito le persone coi gatti sono le più FFFRRRR!, nel senso che hanno gli artigli sempre pronti a scattare per emulazione del proprio animale; i dog addicted sono invece più coccoloni, teneri e “bavosi”, nel senso che magari ti riempiono così tanto di baci che un po’ di scia di saliva ci scappa (ovviamente parlo per esperienza personale; magari a te è capitato tutto il contrario, ma ora parlo io e va così).
Io sono da pesce rosso, e se cominci a ridere giuro che non ti parlo più, anzi, non ti scrivo. I pesci rossi li vedi lì tranquilli tutto il giorno, nella loro boccia o nel loro acquario a seconda che il pesce sia da residence o casa in campagna (sono esigenti i pesci rossi, quasi quasi hanno le pretese dei miliardari) però non sono mai fermi: irrefrenabili, scorrazzano tutto il giorno senza una meta e all'apparenza sono felici, forse perché la loro memoria dura tre secondi e dimenticano pure di andare dalla nonna perché gliel'ha detto la mamma o di annaffiare le piante. 
Gliene vuoi fare una colpa? Io no, so cosa significa avere le giornate intere e la vita stessa perennemente impegnata.
Solo di recente ho scoperto che il pesce rosso ha alle spalle una storia importante: si dice infatti sia nato in una pozza d’acqua, per volere divino, dopo mesi e mesi di siccità ed era portatore di buone nuove... tutto ciò in Cina. E figurati se potesse mancare la mano dei cinesi.
Insomma, il pesce rosso era così sacro che l’imperatore cinese si fece costruire un giardino con annessa residenza estivo/invernale apposta per l’animale (non avevo torto io, allora, quando dicevo che sono viziati) e guai a toccarli con un dito: come si dice, tocca il mio pesce e taglierò la tua mano. Legge del Taglione, semplice.
L’imperatore voleva addirittura mandarli a scuola ma fu costretto a sottostare ai comandi della regina: “scegli, o mandi i tuoi figli a scuola o il pesce... e bada bene, dalla tua risposta dipenderanno anche le nostre notti!”.
La scelta dell’imperatore è facilmente immaginabile... scelse il pesce, perché la moglie non era poi granché e parlava comunque meno della moglie. Molto meno.
Destinati ad essere longevi quasi quanto Maurizio Costanzo, fu subito destinato a girare il mondo ospitato, ovviamente, nelle case dei nobili e delle persone importanti, perché non poteva permettersi di mischiarsi con le semplici alici; una volta venne regalato ad una nobildonna che di nome faceva Pompadour e tra il nome e il “madame ti ho regalato un pesce” sai che risate.
La vera tendenza durante gli anni di Napoleone (e sicuramente ora Dolce e Gabbana saranno invidiosi per non avere avuto loro per primi l’idea) era portare delle bocce con i pesci rossi appese alle orecchie, a mo di ornamento: sicuramente queste donne portavano con sé delle bavette, altrimenti non so come facessero.

Ora: abbiamo appurato che il pesce rosso è un animale regale, sicuramente anche di compagnia e molto apprezzato da ogni fascia d’età, ma… Solo una cosa: per quanto possa amarli, per Natale non farti venire in mente orecchini del genere.

giovedì 3 aprile 2014

Ingegner medaglia d'oro

Caro destinatario,

quando ero piccola, o meglio, quando ero un’adulta bassa, conoscevo un ragazzo che era sicuramente destinato a cambiare il mondo perché era pazzamente geniale: aveva un cervello quanto una mongolfiera, un atleta formidabile, un simpaticone come pochi, ma aveva una pecca: voleva fare l’ingegnere. Ma si, uno di quegli con gli occhiali, i super secchioni che stanno sempre seduti al primo banco per compiacere anche il prof di educazione fisica, uno di quelli che quando fa la spesa usa le derivate per calcolare quanti kili di mele gli serviranno per sopravvivere tutta la settimana e che non compra una t-shirt se la manica non forma un perfetto angolo di 90° con il busto. Io però, da brava adulta bassa, guardavo quell’adulto alto con l’ammirazione che si conviene ai ragazzini nei confronti dei cantanti di Disney Channel, quelli che scalpitano e strepitano quando cantano stupide canzoncine in rima. Per anni il mio debole cuoricino è stato infranto, consapevole che quell’ingegnere avrebbe volato alto e che sicuramente l’avrebbero chiamato dalla NASA per una missione spaziale o che addirittura avrebbe collaborato con l’esercito americano o che ancora avrebbe custodito i segreti dell’area 51 in un ufficio con la targa in oro e il suo nome inciso sopra, urlando “Wattene via!” a tutti quelli che l’avrebbero importunato per portargli quel caffè che proprio lui aveva richiesto. 

D’altronde, gli ingegneri sono così: più sono secchioni, più fanno cose fighe.

Gli anni sono passati e lui realmente è diventato ingegnere, facendo sparire ogni traccia di sé e trasferendosi in qualche borgo nascosto lì nel nord a smanettare con chissà quali e quanti computer super tecnologici.
L’altro giorno poi, mentre passeggiavo tranquillamente per le vie di casa mia, vengo accidentalmente urtata, in modo brusco e sudaticcio, da un uomo che continua imperterrito la sua corsa, senza fermarsi. “Ehi!”, gli ho urlato. L’uomo fa dietro front, con lo stupore disegnato sul volto che per osmosi trasferisce anche a me. “TU!”, gridiamo all’unisono.
Quegli occhiali.. Era l’ingegnere!
“Cosa ci fai qui? Cosa ci fai così?” gli ho chiesto, senza attendere risposta. “Ho deciso di seguire il cuore: voglio diventare un maratoneta! Sono ancora un ragazzino, ho tanta vita davanti e voglio realizzare il mio sogno. Ho abbandonato tutto e ho dato la mia laurea a chi ne aveva bisogno”.
Ero decisamente sbigottita: va bene realizzare i propri desideri, ma quando si ha una certa età bisogna comprendere che con i sogni non si arriva alla pensione.
“devi essere fiera di me: l’altro giorno gliene ho suonate quattro a quello sbruffone di Zenone. Pensava di potermi battere con la sua tartaruga, che stolto! Gli ho concesso 10 mt di vantaggio, ma proprio non ce la faceva a starmi dietro; sarebbe stato un paradosso vero e proprio, pensare che potessi perdere contro una testuggine! Ho portato anche la fiaccola alle olimpiadi, sai? Correvo così veloce che per un momento ho pensato che la fiamma facesse fatica a stare al mio passo. Ah ah ah!”.
Il mio sbigottimento era senza limiti, soprattutto quando mi raccontò di quanto fosse convinto che la birra fosse il “sol che move le gambe e altre stelle”, sostenendo che la sua tartaruga rovesciata gli concedesse la giusta spinta per arrivare lontano e dimostrandolo sempre con quelle famose derivate con cui anni prima contava i kili di mele.
Ah, caro dottor inzignere, quanto ti voglio bene!, ma se continui così farai la fine di Filippide: quell’emerodromo vanitoso corse per ben 42 km, da Maratona ad Atene, morendo stremato appena giunto a destinazione. 

Per questo ti consiglio di tornare a fare l’ingegnere, 'chè sei più utile da vivo che spennato; in caso contrario.. ti serve ancora quella targa d’oro?