mercoledì 21 maggio 2014

Per viltade il gran rifiuto

Caro destinatario,

tempo fa ti scrissi una lettera, era esattamente una mattina del 16 aprile ed erano le 12 e 08 in punto. Ti scrissi senza la volontà di renderti realmente partecipe dei miei pensieri, capitano periodi in cui vorrei abbandonarti ma poi ci penso e proprio non ce la faccio.
La tua/mia lettera faceva all'incirca così:

Caro destinatario,
in meno di una settimana la mia vita si è completamente capovolta: il caro pesce rosso è morto, dopo un anno e mezzo quasi di fantastiche avventure; il mio primo articolo è stato pubblicato e quel pazzo del mio direttore addirittura ne pubblicherà un secondo; il concerto del coro in cui canto è andato Oltre Ogni Previsione (le influenze potteriane si fanno sempre sentire) e, cosa ancor più meravigliosa, ho toccato da vicino qualcosa che mi pareva così irraggiungibile che neanche l’idea s’azzardava a sfiorarmi la mente.
Non di rado capita che la paura o il pensiero di “quel che potrebbe accadere se” ci impediscano di andare infondo a talune questioni che potrebbero, invece, avere un risultato migliore della vincita al lotto. Mi spiego meglio: un buon uomo di nome Dante a nove anni conobbe una bambina di nome Beatrice (o Bice, come la chiamavano in paese); le bambine, si sa, crescono e si sviluppano molto prima degli uomini (che in alcuni casi non crescono affatto) e Bice era bruttina, piatta come una tavola e con i crateri lunari sul viso. Dante, per queste ragioni e avendo di se una grossa autostima perché la mamma gli diceva che era bello, non volle mai approfondire l’amicizia con lei, nonostante le rispettive famiglie volessero farli accasare in modo tale da passare Pasqua e Natale sempre insieme. Insomma, quel matrimonio non s’era da fare.
Passarono gli anni, a Dante crebbe un uncino al posto del naso e finalmente raggiunse l’età adatta per guidare. Una sera, durante un’uscita con gli amici, il nostro amico incontrò per strada una donzella bella, ma così bella che a Dante sembrò avesse addirittura le ali. In Dante cominciarono a moversi il sole e l’altre stelle, voleva urlare al mondo quant’ella fosse beata e tenerla con sé per il resto della vita. “Sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva”, cominciò a dire quasi in preda ad una visione mistica. “Quando esci con noi, te non bevi più, testina”, gli cantarono gli amici.
Con la scusa più banale del mondo (“mi scusi, mi sa dire che ora è?”), lei gli parlò. “Dante, non mi riconosci? Sono Beatrice, la figlia di Ninnella!”.
Beatrice. Quell’anatroccolo di donna si era trasformata in uno splendido cigno che brillava di luce propria, quell’errore della natura era ora l’opera più bella e perfetta di Michelangelo, solo che lei parlava.
Dante, l’indomani, fece pervenire a casa di Beatrice XXXI candide rose e si chiuse in casa per scrivere un poema divino degno della donna amata. Passarono gli anni, e Dante ancora pensava a lei ma non poteva assolutamente lasciar insoluto quel papirone a cui si stava dedicando. Una mattina funesta, però, un bando avvisò la città che la bella Beatrice non solo era morta, ma che il marito ne dava il triste annuncio. Il mondo gli cadde addosso, nulla più aveva un senso. Cosa sarebbe stato, ora, della sua vita nuova, quella che aveva conosciuto da quando l’aveva incontrata? Durante il periodo luttuoso, Dante decise di andare avanti e conservare il ricordo di lei, comunque si sposò ed ebbe 3 o 4 figli, ma non si sentì mai completo come con lei.

Ecco, questo spiega un po’ la pratica del carpe diem: magari, e dico magari, se Dante avesse rivelato prima i sentimenti per Beatrice anziché mandarle delle rose e poi scrivere una commedia che nemmeno avrebbe mai letto, le cose sarebbero andate diversamente. Certo, è anche probabile che mai se lo sarebbe filato, però non avrebbe vissuto una vita di rimorsi. È un po’ come quel tale che vuol vincere la schedina ma non la gioca mai. Va bene il caso fa la sua parte, ma stare seduti a guardare è come aspettare che il telecomando si avvicini magicamente al divano su cui siamo spaparanzati: inutile e deludente.
Per questo ti dicevo di quanto, nel giro di pochi giorni, la mia vita sia cambiata avendo avuto solo la volontà di farlo. 

Inutile, quindi, piangersi addosso senza neanche aver versato il latte: spetta un posto all’inferno anche per gli ignavi e, credimi, la questione rischia di diventare pungente.


sabato 10 maggio 2014

Donne e motori, ciclo e dolori

Caro destinatario,

prima del sesso e dei matrimoni gay, l’argomento più tabù al mondo resta il ciclo delle donne. Certo, tutti sanno che esiste (non è una leggenda, tu non saresti qui altrimenti e nemmeno io) ma nessuno osa parlarne. O meglio, magari gli uomini vorrebbero parlarne ma proprio in quei cinque giorni di periodo rosso in cui le donne, o la maggior parte, sono completamente intrattabili. Che poi, meno male che l’hanno le donne: già m’immagino gli uomini, in un ipotetico universo parallelo, morenti e sofferenti nel letto addirittura dieci giorni prima e intenti a lasciar testamento perché potrebbero non superare la notte. 



La donna col ciclo è diventato uno dei simboli ad hoc per la rappresentazione del male: occhi infuocati, capelli irsuti come serpi, sguardo arcigno e unghie e denti affilati pronti a sradicare dalla faccia della terra la prima parola o frase detta in modo sbagliato. Non per niente, nel Medioevo si riteneva che avere rapporti con una donna mestruata potesse provocare la lebbra: in quei giorni, la donna impura e peccatrice (ma de che?) veniva costretta in una stanza in isolamento perché aveva poteri forse inversi a quelli di Re Mida sciogliendo come acido tutto quello che toccava. 


Le donne mestruate furono prese sempre più di mira e messe sempre più nell’occhio del ciclone, tanto che diversi medici della Grecia antica studiarono il fenomeno dell’isteria come causa di un fantomatico utero vagante che capovolgeva completamente l’anatomia femminile provocando, appunto, fenomeni di fanatismo estremo. Ne parlarono in così tanti che dopo Futuristi, Crepuscolari e Avanguardisti, nacquero anche gli adepti alla “corrente pro-mestruo”, caratterizzata da scritti nei quali compaiono anche “uteri birichini che scappavano quà e là”. Mi chiedo se, anziché la falce e il martello, utilizzassero assorbenti e tamponi come icona riconoscitiva… 
Dati e testimonianze sono riportate, ovviamente, da medici di sesso maschile. Chi l’avrebbe mai detto.
Dall’altro lato della medaglia, però, il ciclo è diventato fonte di guadagno per i coraggiosi che si son cimentati in questo misterioso infero terrestre e che hanno saputo trarne profitto con chimeriche coppette raccogli ciclo (e magari conservarlo per i periodi di magra o improvvise visite di Edward il vampiro) e assorbenti tappa-ogni-buco.
La verità è che quella della donna mostro è solo una leggenda per allontanare i teppisti della domenica, quelli che proprio non riescono a non infierire sui bubboni fase premestruale che addobbano a Natale il viso delle malcapitate. Una piccola vendetta, in sostanza, ci sta tutta.
Non è un’epopea, invece, la visione della donna eroe: dopo la signora in giallo, quella in rosso sarebbe stato un ben degno tributo. La carta non esisteva ancora, le donne vivevano nelle piramidi e una volta al mese si potevano udire gli scriba urlare e inveire contro misteriosi rotoli di papiro e pergamene che sparivano chissà dove per ricomparire qualche giorno dopo, proprio nel posto in cui erano stati lasciati, ma con qualche macchiolina scura in più. Da lì nacque l’effetto bruciato della carta pergamenata. 
Se le donne del secolo scorso potessero vedere quanto sia minuscola la biancheria intima delle ragazze di oggi, sicuramente avrebbero uno shock non indifferente: per loro, in quei giorni, era normale amministrazione indossare i sì detti mutandoni della nonna o grembiuli sanitari e calzoncini così da non sporcare i cuscini quando sedevano sul divano buono. 
L’emancipazione delle donne nacque da quell’isolamento forzato che le ha spinte creare una sorta di gruppo di ciclo solidale e ispirandole a studiare su loro stesse nuovi metodi per impedire al liquido rosso di sgorgar via come la piena del Nilo: lasciate sole a casa mentre i loro mariti lavoravano o partivano per la guerra, le donne-casalinghe-madri-mogli con il ciclo testavano ogni genere di panno assorbente fino a trovare qualcosa di molto simile allo Scottex che potesse alleviarle da ogni pensiero. E poi sicuramente si riunivano in qualche Club del Ciclo per scambiare idee e invenzioni sulla questione. 

Sull’argomento se ne potrebbe discutere per ore ma sicuramente avremmo per risultato una banda di uomini segregati in un angolo con le mani alle orecchie, inermi e semi-traumatizzati perché il diavolo potrebbe intaccare il loro fragile udito. State tranquilli, filtri mortali con il ciclo ancora non ne sappiamo fare.

Ma mai dire mai.

giovedì 8 maggio 2014

Sulla sponda del fiume si son seduti e han pianto

Sempre – disse l’uomo con la barba folta e nera – cosa intendi per sempre – rispose l’uomo senza barba e con gli occhiali – quello che intendi tu per sempre, che poi è quello che intendono le migliaia di persone la fuori come te che si chiedono cosa s’intenda per sempre – sì ma io te l’ho chiesto per sapere quale sia il tuo reale pensiero – tu cosa intendi – te l’ho chiesto prima io – così sei proprio un bambino – e tu non mi hai ancora risposto – sai che in latino molte parole sono senza vocale finale – si, come se non avessero una ringhiera, infatti poi il latino è morto, suicidato, puff, buttato giù da un balcone – ma i latini avevano ragione su molte cose – tipo – tipo la parola sempre – ma allora lo fai di proposito, rispondimi e basta – dimmi sempre in latino – sempre in latino – no, idiota, traducimelo – semper – ecco, vedi, semper non ha ringhiere, semper non si pone dei limiti, semper non ha un carburante che finisce in riserva, semper è libero, libero fino all’infinito e anche oltre – ora finiamo ai cartoni animati – ma anche loro avevano ragione, semper è quel tempo che comincia ma non finisce mai – ah, come quando vai alla posta, sai quando entri ma non sai quando esci – la tua cultura spicciola è disarmante – ma ammetti che ti ho lasciato senza parole – sempre – cosa intendi per sempre.


I due uomini continuarono all’infinito, lui a non capire mai e l’altro a capire troppo, finché l’altro decise di abbandonarlo sulla sponda del fiume che aveva accolto tutte le parole e nessuna parola, quando – Addio – disse l’uomo con la barba – cosa intendi per addio – rispose l’altro, perché le cose è sempre meglio dirle tutte che non dirle mai.