domenica 12 gennaio 2014

Cronaca di una bibliofila a Lecce

Caro destinatario, 
sono di ritorno dal mio sabato sera all’insegna dell’arte sensoriale. Posso chiamarla così? In fondo stasera si sono messi in moto tutt’e cinque i sensi, quindi ti prego di lasciarmi passare il termine com’è passata, ormai, questa toccata e fuga a Lecce. È vero quel che dicono di lei: che emana calore da tutti i vicoli, che senti l’allegria nell’aria, che ti segue ovunque tu vada con quella sensazione di casa. Mentre passeggiavo tra un vico e l’altro, scrivevo (o meglio) appuntavo sul mio taccuino virtuale tutto quello che mi capitava sotto gli occhi: nomi di strade, di insegne, cartelloni e bar ma, purtroppo, per un arcano mistero è andato tutto perduto. Quello che riporterò, per tanto, qui di seguito sono semplicemente i ricordi delle impressioni sensibili che mi son rimaste, sperando che questo mi serva da lezione per la prossima volta. La cosa, alle 21.37, si è svolta più o meno così:

siamo cinque amici, una radio, uno macchina e i finestrini appannati di un po’ di eccitazione per quel viaggetto fuori porta che ci apprestiamo a compiere. L’auto freme, la lancetta della benzina non vede l’ora di muoversi e le strade sono semi-deserte, quasi vogliano agevolare quel nostro spingerci più in là. Il tempo non è dalla nostra parte, eppure non gli abbiamo fatto niente, vogliamo solo andare via e respirare aria diversa ma la nebbia scende fitta e ancora più fitta che ho capito cosa significa non vedere un palmo dal naso. Sembriamo soli e abbandonati sull’asfalto scortato dalle bianche strisce tratteggiate e l’unica cosa a farci compagnia sono le luci accese a festa, un po’ a lampeggiare per dire “io ci sono”. La cosa dura per tutto il tragitto, tant’è che appare interminabile se non fosse per la complicità che è dalla nostra parte, così cominciamo a cantare stupide canzoni o vecchi idoli e il tempo scorre con le ruote dell’auto. Il paradiso lo scorgiamo su un cartello azzurro: LECCE. Siamo arrivati!, ed io fremo, mi sembra che tutto sia più bello, dai semafori alle targhe delle auto ai ragazzini per strada ai cartelli pubblicitari: tutto è leccese, e questo ci fa ridere un po’. Certo, ridiamo della nostra stessa ridicolezza, perché sembra siamo partiti per chissà quale Paese lontano ed invece siam cascati solo un po’ più giù. La sfortuna del viaggio si accompagna alla fortuna di un comodo parcheggio leccese. Lasciamo la macchina, ci risistemiamo e qualcuno è già pronto a vestire i panni del turista con la macchina fotografica del cellulare. Quello che a me colpisce sin da subito è la monumentalità di quel che vedo e vien scontato fare il paragone con la propria cittadina: la mia Crispiano, in confronto, posso tenerla nel palmo della mano. Cominciamo a camminare basandoci su piccole indicazioni di chi la città l’ha vissuta da quando ha cominciato a fare i primi passi, senza una cartina ma con il GPS alla mano: siamo o non siamo la generazione ultra tecnologica? Ad accoglierci, la chiesa di Santa Chiara nel centro storico di Lecce, in piazza Vittorio Emanuele II, ovviamente gremita di gente che cammina e si dirige in ogni dove, ma lo spettacolo più grande è Piazza sant’Oronzo, con l’enorme e imponente colonna, e l’Anfiteatro Romano (leccese). Qui scattiamo fotografie da ogni angolazione e la cosa che più mi stranisce è vedere la gente che passa davanti a tanta bellezza e che ovviamente resta quasi impassibile e indifferente. Dico ovviamente perché quella piazza fa parte della loro vita e della loro quotidianità, del loro ordinario, mentre per noi è la bella straordinarietà che colora questo momento. Avanti all’Anfiteatro ci coloriamo di blu, le luci hanno quella sfumatura bizzarra, e la cosa ci fa sorridere. Riprendiamo il nostro tour del sabato per Vico dei Sotterranei (il che mi rimanda a I sotterranei della cattedrale, Marcello Simoni), dove ci accorgiamo di una scritta sul muro: Erri De Luca, la Tap va sabotata, tutto in rosso, tutto in maiuscolo e le lettere tutte piccole e uguali, come se fossero state stampate con un timbro. Il tutto è messo in una sorta di riquadro, per cui penso bene di ringraziare Erri De Luca per essere accorso questa sera. Il vico è ricco di lanterne colorate ed è inevitabile non pensare che la città continui a trasmetterti l’allegria. In via Guglielmo Palladini veniamo fermati da un fotografo che imprime ancor meglio quel momento ed è bello venir presi in considerazione in una città sconosciuta, come se la nostra presenza non passasse inosservata. Il fotografo del Nando’s ci saluta e noi proseguiamo. Mi diverte la scritta di un bar, Quante storie per un caffè, e mi lascio trasportare dalla vita semplice e amara allo stesso tempo, perché quella frase racchiude una lamentela e una gioia. Niente che, ovviamente, la bevanda scura non possa lenire. Per quel vico, ultima tappa è Piazzetta Giosuè Carducci con il convento di San Francesco d’Assisi recante la scritta “Religioni et bonis artibus”, a caratteri cubitali. Risalendo quei vicoli, mi fanno segno di guardare in alto: un campanile enorme spunta da alcune case lungo la via. Wow! Roba da restare a bocca aperta. Seguiamo ancora i tasselli che compongono la marmorea passerella fino a Piazza Duomo: lo splendore della cattedrale illuminata e tutto il resto in penombra, a voler volontariamente risaltare quella maestosità che la rende degna del nome. Ancora non mancano le foto e alcuni aneddoti raccontati da chi, della storia di quel posto, ne sa qualcosa in più. Ci fermiamo davanti alla vetrina di un negozio di pelletteria in cui compare un mappamondo, delle cartine geografiche e la statuetta di Atlante che sorregge il peso del mondo e questo mi riporta con i piedi per terra e (per qualche secondo) al mio tanto temuto esame. Accantonando il tour, ci accorgiamo di avere un certo languorino: tornando in piazza sant’Oronzo, entriamo al Caffè Alvino che fa anche da pasticceria per assaggiare i pasticciotti. La gente è ancora tanta ma quel che mi colpisce è l’odore che catturo, che non è nient’altro che il solito odore che caratterizza i bar di ogni paese. Forse è una cosa a cui non si dà conto, ma è un piccolo modo per non sentirsi stranieri, è come se portassi sempre con te gli odori più familiari. Ultimissima tappa, il Nenè, bar anni ‘70 ricco di colori e forme geometriche, tanta bella musica e souvenir che ricordano i Beatles, Mina, I Rolling Stones e quanti hanno fatto di quegli anni gli anni d’oro. Consumiamo il nostro drink di fronte all’anfiteatro, siamo i soliti cinque amici, una panchina e i piedi stremati ma comunque tanto felici, Lecce sa di vita pura. È l’una passata e la gente ancora gira in bicicletta, porta a spasso il cane e ride perché quella città lo permette e ti invita a farlo. Una cosa ti dirò che probabilmente ti sembrerà strana ma mi ha colpito vedere tanta gente calva: forse è vero che Lecce è così bella da strapparsi i capelli.

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