mercoledì 29 ottobre 2014

Il giovane rinchiuso

Comincio col dire che la mia passione leopardiana non è mai stata una novità, almeno per quanti mi conoscono; conservo gelosamente gli appunti che ci passò la professoressa Ciliberti e li ho così ben impressi nella memoria che ricordo perfettamente ogni rigo sottolineato con l'evidenziatore, la perfetta collocazione dei titoli e le parole messe in risalto, col grassetto panciuto. E i righi evidenziati erano tutti, perchè tutti importanti. Ah, e i cuoricini vicino le poesie..
Comunque. Mario Martone quest'anno mi ha fatto un gran bel regalo: IL GIOVANE FAVOLOSO, film biografico che racconta la vita di quel genio malaticcio di Leopardi che ha trovato voce ed espressione nella persona di Elio Germano (e tanto trucco e parrucco).  
Non sbaglio se affermo che Leopardi è una persona che difficilmente si ama se non ci si riesce ad approcciare sensibilmente al suo animo: ricordo i tempi delle superiori quando, alla voce della Ciliberti che con la r moscia annunciava "oggi cominciamo Leopavdi", in aula si mormorava un unisono di "madò, che palle, quel depresso". Ed io, invece, che lo amavo tanto.
Chi conosce la vita di Leopardi sa che il suo "studio matto e disperatissimo" era fortemente voluto dal padre Monaldo (a scuola non lo ricordavo mai; poi studiai un espediente, mon-aldo, dicendo fosse il modo in cui lo chiamava la moglie in un momento di intimità: "ah, mon Aldo".. il francese fa sempre un certo effetto). Dei tre figli, Giacomo era il più promettente, forse il prediletto, la capretta zoppa da difendere e tenere con sè. Giacomo amava il padre, era il pilastro della sua esistenza, ma allo stesso tempo lo odiava per il suo volergli tarpare le ali: una persona così grande diventava invece tanto piccola sotto lo sguardo austero di Monaldo.
Durante tutto il film, le parole TRISTEZZA, ANGOSCIA, PESSIMISMO e DISPERAZIONE non hanno fatto che aleggiare in tutta la sala fino a quando non c'è stata la rivelazione:
non imputate al mio stato fisico ciò che è solo del mio intelletto.
Ecco, forse le parole non sono state precisamente queste ma è ciò che è rimasto nella memoria. Da qui in poi tutto ha assunto un altro colore, un altro sapore, un altro suono. La disperazione anelata negli occhi di Elio Germano non riflettevano un dolore fisico (comunque difficile da nascondere e/o da ignorare) ma un magone chiuso dentro e lungo tutta una vita. Un Leopardi favoloso ma rinchiuso in una gabbia, fisica e mentale. Nonostante la fuga dalla villa di Recanati, cinta da una siepe che è diventata poi simbolo universale legato all'ermo colle, Leopardi non riuscì mai a fuggire da se stesso e dai suoi demoni. Sicuramente imparò a conviverci, questo sì, come pelle sulla pelle, manto su una gabbia che troppo presto cominciò ad arrugginirsi.
Nessuna pena se non davanti alle sfighe amorose: prima la morte di Teresa Fattorini, la sua Silvia, poi il tanto dannarsi per una donna, Fanny, troppo vicina alla donna che preferisce il giovanotto aitante ad un giovane vecchio ma con il mondo nella testa. Nessuna pena ma tanta ammirazione per un genio segregato in una carcassa ma con infinita ironia di sè e tanta voglia di vivere la vita.
Ebbene sì, perchè il nostro Giacomo non ha mai voluto precludersi nulla: cercava l'amore, lo sentiva nelle viscere, amava la natura e voleva dare ai suo occhi nuovi orizzonti in cui perdersi. Come non amare, allora, un uomo che nel suo tempo ha già saputo prevedere ed abbracciare anche i nostri? 
Il tocco più grande Martone l'ha dato alla fine: nessuna conclusione prevedibile, nessuna scena in cui Leopardi termina i suoi giorni in un letto fatiscente. Leopardi non ha avuto fine, resta simbolo infinito in una vita che per lui è stata breve ma intensa passando a noi, posteri, il suo desiderio di eternità.