venerdì 28 febbraio 2014

Straordinaria mente



Caro destinatario,

la mia pausa di questi giorni è scaturita da alcune riflessioni conseguenti la lettura delle mie lettere a te. Capita spesso che lavori di cui siamo orgogliosi, a distanza di tempo, appaiano scabri e privi di nesso logico; son addirittura arrivata a pensare di non meritare quelle parole che capitavano nella mente come flash improvvisi e che legandosi con altre, formando una danza apparentemente bellissima, creavano poi catene lunghissime i cui estremi finivano chissà dove. Forse il ripudio per qualcosa che nasce dalla nostra anima è lo step necessario per la completa accettazione di essa stessa, seppur con molta fatica.. ma questo lo scoprirò più avanti.

Quello che stasera mi ha spinto a tornare a scriverti (anche se non ho mai spesso, nonostante la mancata forma concreta e ufficiale) è stata la guerra sinapsiotica che è scoppiata nella mia testa durante una comune conversazione con mia madre. Lei ha sottolineato, parlando della gente, le parole “persone normali” ed io mi sono chiesta chi fossero queste “persone normali”.
Le persone normali sono forse persone ordinarie? Sicuramente sono nella norma, senza peculiarità alcuna che li esalti e li distingua da quella stessa massa standardizzata che si è creata nella mente di mia madre con quella espressione, in quanto inevitabile nasce il collegamento dell’immagine astratta con la materia concreta.
Le persone normali sono sicuramente persone ordinarie con case ordinarie e lavori ordinari.. o quelle sono persone fortunate? E certo, perché la nostra era è caratterizzata dalla lotta quotidiana contro tutto e tutti per arrivare al giorno dopo, l’era dell’Homo homini lupus, nonostante ci si aspetti sempre migliori condizioni di vita dalla sempre maggiore (e fittizia) civilizzazione dell’uomo. 
Le persone normali sono quasi certamente persone che nonostante abbiano perso tutto, nell’amore della famiglia trovano ancora un posto caldo in cui rintanarsi quando neanche le mura fredde di casa possono risollevare l’animo.
Le persone normali sono quelle che, nonostante le tante porte chiuse, non smettono di lottare, perché le persone normali sono persone forti anche quando non hanno più forza. Le persone normali le vedi sorridere di fronte alle avversità perché vogliono che il loro domani sia positivo, se non può essere migliore.
Le persone normali trovano sempre una soluzione perché hanno le mani che profumano di dignità.
Le persone normali sono persone tra le persone, persone con le persone, persone per le persone. Le persone normali conoscono la fatica del duro lavoro ma sanno anche quanto sono belli i suoi frutti. Le persone normali non mettono mai loro stesse al primo posto perché sulle spalle hanno la famiglia.
Le persone normali sanno piangere. E che ci vuole, dirai, anche il coccodrillo piange. Ma sai come piange una persona normale? Piange di nascosto ai figli, perché non può garantire loro il domani, figuriamoci il futuro. Piange perché è una persona normale e non una macchina, ha sentimenti normali e una forza straordinaria. 
Con che coraggio possiamo definire queste “persone normali”? Certo, magari dall’altra parte del mondo nessuno conosce il loro nome ma sicuramente tutti conoscono le loro storie, perché le persone normalmente straordinarie lasciano il segno anche nell’ordinarietà. Proverai sempre dispiacere per le persone normali ma anche tanta ammirazione perché, come scrisse Andrea de Carlo “Le persone più interessanti sono sempre il frutto di situazioni complicate”.
Son belle le persone normali, sono loro gli eroi del nostro tempo, ed io scrivo a te che so che capisci cosa vuol dire racchiudere la bellezza dell’umile normalità. 
Siam tutti capaci di diventare straordinari, la vera sfida sta nel continuare ad esser capaci di meravigliarsi di fronte alla semplicità.

mercoledì 12 febbraio 2014

Lettera alla madre

Cara mamma,

recentemente mi è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te, di rendermi conto che è difficile per me riconoscere il momento in cui ti ho perduta pensando di non averti mai incontrata. È stato difficile persino aver paura, perché non essere all’altezza può essere il male che ti logora nel profondo e che arduamente si cava via. Sono state tante le volte in cui credevo che la rottura fosse lo step obbligatorio per passare dall’essere entità distinte e separate al riconoscersi figlia nel corpo di madre e madre nel corpo di figlia. Sono stati momenti in cui ti ho vista inerme dinanzi alla forza della natura che scorreva feroce e violenta dentro di me e che a me stessa sembrava turbolenta e inarrestabile ma che mi faceva sentire un gradino più sopra, forse più grande, forse più come te. La mia è stata un’adolescenza sbagliata, giacché nel tuo aver fiducia e nel tuo credere nella mia maturità sono invece stata la tua più grande delusione. C’è chi potrebbe vedere la cosa come la genetliaca reazione del corpo e della mente tutta dinnanzi ad aspettative spesso troppo grandi per mani da bambina: il capriccio adolescenziale. Il fatto, cara mamma, che il mio ostinarmi a farti capire che non fosse un capriccio è esploso nella mia stessa convinzione che stessi vivendo una vita più grande delle mie tasche ed è accaduto quel che avviene quando si ripete, perentoriamente, la stessa bugia: finisci per crederci davvero. Quel che mi chiedo è se tu, nel tuo immenso e preparato essere madre, una cosa del genere avresti immaginato potesse mai accadere. Forse si, ma non te l’aspettavi. Non parlo con voce di chi va fiero di essersi sentito per un po’ pecora nera ma con quella di chi non è riuscito a svolgere il ruolo assegnatogli senza saperne ancora il perché; per questo mi chiedo se la tua esperienza possa rispondere alla mia domanda. Non ne voglio parlare ma voglio sapere, è un qualcosa a cui penso quando mi chiudo nel buio della mia camera che mi ha accolta adolescente acerba e mi ha risvegliata donna matura. A mio parere tu lo sapevi ed eri pronta senza sapere quanto saresti stata forte a causa di tutte quelle notti piene di pensieri martellanti ed incessanti che non ti facevano dormire ed io che mi sentivo in colpa senza sapere come smettere perché di certe forze non ti liberi facilmente, o almeno cosi pensavo. Io avevo paura di te quando pensavo che forse non avresti mai potuto poter perdonare tutte quelle mie mancanze e che io stessa non avrei mai ricreato quell’immagine che non ho mai visto e che figurava nella tua testa. Chissà come mi immaginavi e come mi avevi trovata, se la ragazzina ribelle aveva comunque i boccoli biondi e le guanciotte paffute. Eppure non ho mai pensato ne voluto essere una ribelle in quel senso, ero semplicemente ciò che la testa o il cuore mi dicevano di essere, ma ai tuoi occhi forse non ero nient’altro che niente. Sentivo d‘aver perso il mondo che mi avevi donato e sono diventata adolescente donna nel momento in cui ho capito che il fine della mia esistenza era riappropriarmene. Difficile dire quando ciò è avvenuto ma non ti nascondo che, non conoscendo quanto lontano potesse arrivare l’amore di una madre o, meglio, di mia madre, i passi indietro sono stati per lo più tentoni pesanti che hanno lasciato dei solchi sulla strada. Ti ho ritrovata esempio, porto e sostegno. Ti ho ritrovata che avevi le braccia più grandi di quelle che avevo lasciato e che quasi avevo dimenticato quanto calore potessero emanare. Difficile dire quanto è stato duro per te accantonare quel segreto e riprendermi nelle mani ma è semplice, tanto semplice, riconoscere il momento in cui ti ho ritrovata più mia, più stretta, più simile a me.

lunedì 10 febbraio 2014

Nosce te ipsum

Caro destinatario,
ho sempre pensato che porsi degli obiettivi fosse un modo per andare avanti facendosi coraggio senza bisogno (di) alcuno; pensavo fosse un modo per seguire una strada piuttosto che un'altra, quando tutte le frecce indicano le direzioni più disparate, e invece capita di scorrere i giorni come le pagine di un diario, o di un quaderno vuoto, e mi sembra di farlo senza darci peso. Mi rendo conto solo ora di quanto mi sembri lontano il nuovo anno, quando ho giurato a me stessa che questa volta sarebbe stata diversa, che sarebbe stato l’anno del riscatto, della rivincita, della gara con me stessa se vogliamo, dato che il clima olimpionico lo permette. Ho giurato a me stessa che io sarei stata il mio obiettivo, chiudendo tante di quelle porte che non poche volte mi son sentita in dovere di chiedermi se quella fosse la scelta giusta per me. In fondo sono quasi una neofita della vita, cosa posso saperne io delle cose di cui potrei pentirmi? Io, caro destinatario, non so se sai di cosa sto parlando, se almeno una volta ti sei sentito come me, ma ti confesso che non ho voluto scriverti perché sento d’aver perso qualcosa che in questo momento non mi rende capace di riconciliarmi a te. Facendo un passo indietro, vorrei rettificare che ho sempre pensato che porsi degli obiettivi fosse un modo per avere più paura. Elementare, come ho fatto a non esserci arrivata prima: quando hai un bersaglio avanti a te, più o meno lontano, la tua paura più grande è quella di non centrarlo e non importa quante convinzioni hai perché ci sarà sempre quel margine di dubbio che ti farà ricredere sulla tua possibilità (anche minima) di riuscita. Avere un obiettivo ed avere paura vuol dire aver intenzione di comprare un vaso di cristallo e temere di romperlo tornando a casa, con tutte le precauzioni possibili che si possano prendere. Non capendo nulla ho invece capito qual è l’altra sfaccettatura del vivere quotidiano: salire sul trampolino e tuffarsi privi della certezza di tenere il busto o le braccia nella posizione corretta, ma avendo comunque il coraggio di spingersi oltre. 

Non ho mai capito come si faccia a vivere senza sogni. Li vedi lì, alcuni, che corrono all’impazzata cercando il proprio senza trovarlo mai; altri seduti su una panchina con il sogno stretto al petto, poggiato sulle gambe perché forse un po’ pesa, ma senza muoversi mai. I più fortunati stanno nel mezzo, magari lo trovano ma questo inizia a correre non perché non voglia farsi prendere ma perché ti sta regalando una gioia più grande, la soddisfazione dell’essertelo guadagnato. Eppure anche qui ci son quelli che corrono e corrono senza raggiungerlo mai e quello secondo me è un vivere a stenti, a tentoni, un “è bravo ma non si applica” detto dall’insegnante ai soliti colloqui di scuola. Io ho paura di quel vivere, ecco. L’aver paura di perdere dovrebbe essere il male del secolo ma, oggi come oggi, è pretendere troppo. Dovrebbero tutti correre inseguendo se stessi perché in fondo i nostri sogni sono la chiave astrattamente concreta di quel che abbiamo dentro, che non si accontenta di quel che riusciamo a strappare ma punta sempre più verso il centro. Sant’Agostino diceva Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas, che tradotto sarebbe Non andare fuori, rientra in te stesso: è nel profondo dell'uomo che risiede la verità. È lì il segreto, perché sapere la verità è rendersi felici, è avere la chiave per aprire non una porta ma LA porta. La verità rende chiara qualsiasi cosa, la verità ti concede un potere così grande che a spiegarlo è pure impossibile. Se hai la verità hai te stesso, perché vuol dire che ti conosci senza troppi giri di parole, che sei arrivata all’oikeiosis (ah, quei furbacchioni degli stoici: loro l’ozio lo chiamavano “meditazione per il raggiungimento della synaesthesis, percezione interna”, roba d’alto livello) e quindi alla piena realizzazione di te medesimo. Non hai una vita di stenti, hai certezze inequivocabili.. e chi non le vorrebbe. Il segreto sta nel continuare ad avere coraggio, perché son sicura che continueranno a non mancare quei momenti in cui mi sentirò tirare giù dopo il tuffo dal trampolino, e ad avere fiducia in se stessi perché siamo noi la forza che muove il nostro mondo, anche quando tutto sembra fermo.

martedì 4 febbraio 2014

Crestomazia

Caro destinatario,

inequivocabile è la velocità con cui sta scorrendo il tempo. Mi sembra ieri che aprivo gli occhi al mondo, ieri che brindavo al nuovo anno e quasi quasi devo già dirgli addio.. no vabbè, così tragico non è, ma è per farti capire come possa stupirmi del veloce passare dei giorni, delle ore, dei minuti. Volevo aprire la lettera in altro modo, ma scrivendo la data è stato questo il primo pensiero che mi è balzato alla mente. 
I diversi avvenimenti che mi hanno toccata più o meno da vicino in questi giorni mi hanno lasciata riflettere su quanto, nella nostra uguaglianza, possiamo essere diversi. Magari abbiamo tante cose e persone in comune, ascoltiamo la stessa musica, ma poi capita quell’unica e sola parola che ti fa ricredere su tutto il mondo che avevi creato sinora. Ti è mai successo? Forse resto stupita perché non sono più così accondiscendente come un tempo, non mi lascio più passare nulla addosso e le parole non riesco più a trattenerle (tranquillo non parlo a sproposito, conto fino a dieci prima di esprimermi). Mi rendo conto di quanto sia difficile sciogliere un pensiero quando ormai si è insinuato nella testa e forse, anzi sicuramente, la stessa cosa succede a me ma non sono ancora troppo autocritica per notarlo. Però lo sto ammettendo, è già il primo passo. Sai quanta rabbia, invece, quando cerchi un sano confronto ed invece ti ritrovi a sbattere contro una parete di cemento armato? Allora altro che diamanti, se i pensieri fossero concreti come rocce di certo sarebbero indistruttibili e scagliati fanno più male che bene. 
Mi hanno sempre insegnato, caro destinatario (e penso anche a te, dato che mi ascolti così clementemente), che quando non si ha nulla da dire è meglio restare in silenzio e che quando invece qualcosa la si vuol spiccicare è bene avere qualcosa su cui poggiare i piedi, in modo tale da non cadere o comunque da farsi meno male. Io questo l’ho imparato a mie spese e l’ho imparato perché qualcuno mi ha monito a farlo, allora perché ancor oggi ci si trova a dover lottare contro chi sente proprio la necessità di aprir bocca e favellare come se non ci fosse domani? È un dubbio che mi attanaglia da giorni e lo dico a te perché spero che magari tu possa aiutarmi, aprirmi gli occhi, illuminarmi!, per lo meno. Dici che è una sfida persa? Probabile, però pensa alla perdita maggiore che potrei averne se invece accettassi tutto a prescindere. Io come sono adesso non potrei farlo. Finchè si hanno parole per combattere è bene che si combatta, perché (citando Montesquieu) mi considererei il più fortunato dei mortali se riuscissi a guarire gli uomini dai loro pregiudizi. Pregiudizio io chiamo non già il fatto di ignorare certe cose, ma di ignorare se stessi.