giovedì 30 gennaio 2014

Crispianeme

Caro destinatario,
certo non sono mancate le volte in cui ho citato, tra le mie lettere, il mio paese o frasi nel mio dialetto, dando per scontato che potessi vedere le immagini che si creavano nella mia mente o capire quello che volevo dirti. Una lettera, in particolare, ti è stata scritta spinta dal pensiero di quel che sarebbe potuto accadere se fossi andata via e non di rado scrivo sollecitata dalla malinconia. Andar via e abbandonare luoghi che conosco come le mie tasche, che potrei attraversare ad occhi chiusi sarebbe davvero terribile ma a volte risulta indispensabile. Curiosa mi è parsa, allora, la nascita di un gruppo sul social che è così famoso che non ha neanche bisogno di nome, perché l’icona già figura nella mente, e che appunto riporta il nome del mio paese. Sei di Crispiano se.
La catena di scambio formatasi è stata così forte quanto incredibile, che il telefono riportava sempre una notifica attiva, che ti connettessi alle dodici del giorno o alle undici la sera e non ti nascondo che la cosa mi ha davvero riempita di calore. Passeggiando per Crispiano, poi, ho avuto una sensazione diversa dal solito, era come se chi mi stava davanti, chi mi camminava accanto o chi si apprestava ad entrare in casa avesse con me qualcosa in comune che probabilmente ho sempre dato per scontato: la terra natia. Strano come ci si possa sentire più vicini se solo si pensa che abbiamo esperienze di vita comune o che i nostri piedi hanno calpestato le stesse strade, chi da dieci, chi da venti e chi da cinquant’anni.
In un primo momento mi sono limitata a leggere quasi superficialmente, poi è nata la curiosità sempre maggiore di sapere “ma ce cos ten’n tant da dish’r?”*, perché i nomi che comparivano nel gruppo erano sempre diversi, magari con meraviglia di chi neanche pensavi fosse registrato sul network, e di lì son cominciati a comparire i sorrisi perché mi rendevo conto che quel dialetto io lo capivo bene e (spesso, non sempre) riuscivo a concretizzare momenti raccontati in luoghi che ancora persistono. Son tornata indietro di tanti anni, anche a momenti a cui mi capitava di ripensare ma che magari accantonavo come niente; mi è venuto in mente il vecchio centro storico in cui abitavo da bambina e tutta la zona di Crispianello che adoravo in tempo natalizio o le volte in cui facevo avanti e dietro da Minerva perché compravo un quaderno ma dimenticavo la penna, ed il panico le prime volte in cui ho avuto a che fare con la vecchia Lira perché non sapevo quando mi spettava il resto e quando no; e il richiamo che ancor oggi non riesco a capire di Alessandro il fruttivendolo, che certamente annunciava in modo inconfondibile la sua presenza! Se ci penso ora mi vien da sorridere. Tantissima, poi, la gente nominata e che nemmeno conosco, seguita dai tanti soprannomi che rendono conoscibile l’ignoto, quando per cognome non ti conoscono ma se dici il soprannome allora diventi famoso. Che poi, chissà com’è che ti conoscono bene col soprannome.. chissà cosa dicono!
Non celo la malinconia nata leggendo post di anni in cui non esisteva neanche il pensiero di me, foto in cui la piazza era diversa, la posta non era la posta di ora e la villetta era tutt’altra storia. Io non c’ero ma ci volevo essere. Se penso alla Crispiano quando non c’ero, la prima cosa che mi viene in mente sono le strade gremite di gente che passeggiano, cosa che solerte mi raccontava mia madre, e che adesso non vede neanche anima viva.
“Crispianeme” è bella se la vivi. E’ bella anche quando te ne lamenti, “manca questo, quello è difettoso”, ma è bella proprio perché forse senza tanti difetti non sarebbe la culla della nostra vita. Crispiano è bella perché accomodante, è bella perché quando te ne vai senti che ti manca, è bella perché quando ne parli e stai fuori paese dici pure che ha ventimila abitanti ma non per esagerazione ma perché effettivamente ti accorgi che dentro di te è grande.
Sono contenta di aver conosciuto e di continuare a conoscere il mio paese. Ovviamente, ma che te lo dico a fare, non ho citato assolutamente nulla perché son così tante le vie, così tante le persone che ci sono e non ci sono più che ci perderemmo in chiacchiere per giorni e giorni (e sta già accadendo) ma, d’altronde, va bene così. Crispiano è bella perché non basta una vita per conoscerla tutta. Crispiano è bella perché è mia.


“Cr’spien quant m cosh
Cr’spien m fesh suffrì
Cr’spien ji non m n fosh
Cr’spien.. do agghija murì.”

https://www.youtube.com/watch?v=uk-xzSb2DVY

*ma cos'hanno tanto da dire?

lunedì 27 gennaio 2014

Il prezzo della verità

“Ma ora che torni a casa ti metterai a scrivere?”

Me lo sento dire spesso ormai e, che il tono sia ironico o comunque semi-serio, è proprio così. Se mi trovo fuori casa diventa tutta una corsa contro il tempo, una lotta struggente tra il voler restare perché potrebbe accadere qualcosa di spettacolare da vedere e il voler correre a casa a posare tutto quello che ho paura la testa non possa contenere; la maggior parte delle volte, lascio che le cose vadano da sole, senza affannarmi troppo, perché poi mi distraggo e mi arrabbio con me stessa perché ho lasciato indietro una virgola. Neanche ora ho uno schema preciso di quel che voglio dire, ma vediamo se ci riesco comunque.

Manca poco alle venti e trenta, l’aria è fredda, quasi pungente, e mi chiedo come mai oggi mi sia messa una sciarpa troppo leggera rispetto al mese che tacitamente ci accoglie. Corriamo a prendere i posti, stasera trasmetteranno un film nella sala retrostante la Chiesa e ho, come al solito, l’ansia di arrivare tardi o comunque troppo nel mezzo. Il film è dedicato alla giornata che inevitabilmente e ciclicamente si ripresenta ogni giorno come questo di Gennaio e si cerca di “goderlo” pienamente, come meglio si può. Ho usato una parola grossa, oggi non c’è nulla da godere, allora ci riprovo: ogni giorno come questo di Gennaio si cerca di viverlo pienamente, come si deve fare. In alcune parti del film, la mia mente corre in luoghi e tempi in cui io non c’ero ma che si figurano così concretamente dentro la mia testa da non riuscire a vedere più quello che realmente mi passa davanti. Mi sembra di sentire gli aerei, la radio annuncia una guerra ed io mi stringo a mia madre senza sapere quante altre volte ancora potrò farlo. Sento i bambini piangere, penso a mio padre e non so dove sia. Chiudo gli occhi, li strizzo e li riapro, un po’ tremo e non so se sia il freddo o una parte di me sia rimasta troppo emotiva. Le scene del film scorrono, una bambina abbraccia con strazio la propria mamma, la stessa che le aveva promesso che sarebbero ritornate a casa presto e che non riuscirà a mantenere quanto detto: vale, in quei casi, accendere una piccola bugia se comunque, fuori, non ti resta più nulla; bugie come quelle si perdonano subito. Sono di nuovo sola, nel bene o nel male ringrazio di avere anche quella sciarpa leggera che sembra però riuscire a sostenere lacrime pesanti e pensanti. Non azzardo neanche a dire cosa avrei fatto io al posto della bambina perché non puoi assolutamente immaginarlo. L’istinto primordiale vuole che l’uomo in pericolo scappi e pensi solo a se stesso e, come ovvio, la salvezza è il primo pensiero che mi è venuto in mente. Ma quando hai perso tutto, quando ti sembra di non potercela fare, quanto vale continuare a credere di essere l’eccezione in tutto quel male? Quanto può essere deleterio vivere una vita col senso di ribellione nei confronti di un destino che non aveva nei piani il nostro poter vedere una nuova alba? Eppure la forza è questa, è questo che ci si aspetta da chi invece è destinato a tenere unite le due parti di un filo che in un altro mondo si sarebbe già rotto. A vedere immagini come quelle, si crea dentro di se uno strano senso del dovere. Già, ma dovere di cosa? Di ricordare o di non dimenticare? Cavillavo, accendendo il mio portatile, sulla linea sottile che intercorre tra due termini che sembrano l’uno l’opposto dell’altro, che magari sembrano lontani ma che in realtà sono così vicini. Ricordo una mia professoressa del liceo che spesso diceva che i contrari non esistono, allora ho pensato alla vita propria di due termini del genere, come se fossero gemelli eterozigoti e biovulari: ho il dovere di ricordare tramandando quello che so e quello che vedo. Ho il dovere di non dimenticare quello che mi è stato detto, riferito, quello che ho letto. Ho il dovere di ricordare dove ho letto una determinata parola e di non dimenticarne il significato. Ecco, a volte sembrano termini consequenziali, altre sembrano voler dire la stessa cosa, altre ancora il ricordare sembra il punto di partenza mentre il non dimenticare appare accovacciato nel letto con la testa sul cuscino perché ormai la terminologia, il concetto, è bello che impresso nella memoria. Checché se ne dica, che si voglia ricordare o non dimenticare, la cosa importante è che resti. Il nostro DOVERE è quello di preservare la memoria, di avere anche noi una chiave con la quale aprire e chiudere il nostro scrigno e immetterci quanto possibile. Le informazioni devono diventare parole, le parole emozioni, le emozioni passione ed infine insegnamento. Abbiamo il dovere morale, in quanto futuro nel presente, di portare con noi il passato.
Il film è finito solo sullo schermo. Il mormorio si è riacceso, insieme alle luci, e si ha avuto modo di guardare le facce dei presenti per vedere cosa era rimasto in ognuno. Gli occhi, le espressioni, raccontano molto. Fuori le strade sono deserte e ho visto la pioggia cadere e lavare via tutto, così mi è venuto in mente il gelo di prima in una metafora davvero molto semplice: il gelo erano gli atti cruenti; il deserto tutto quello che ne ha conseguito, la strage, il silenzio; la pioggia, infine, il perdono e la speranza. C’è chi ha chiesto scusa per un male comune. C’è chi spera che quel male possa non ritornare mai più. Quella pioggia è servita a ricordare che si fa presto a rompere il silenzio e a lavare via tutto. Lavare, non cancellare. Permanere e rimediare, nel desiderio che l’uomo riesca ad essere più simile all’uomo e meno all’animale. Per quanto mi riguarda, spero di poter ritornare nei luoghi della memoria che ho già avuto modo di attraversare con un animo forse non ancora pronto. La memoria è uno strumento potente per quanti riescono a ben adoperarla: ricordare e non dimenticare, perché “a volte le storie che non riusciamo a raccontare sono proprio le nostre, ma se una storia non viene raccontata diventa qualcos'altro, una storia dimenticata. Quando una storia viene raccontata, non può essere dimenticata, diventa qualcos'altro. Il ricordo di chi eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare”. (dal film La chiave di Sara, di Gilles Paquet-Brenner)

giovedì 23 gennaio 2014

"Io quando avevo vent'anni ero uno stronzo"

Caro destinatario,

i 21 anni si avvicinano, nei modi più diversi. Ci sono giorni in cui semplicemente si attaccano al campanello neanche fossero i testimoni di Geova e altri in cui bussano e bussano fino a quando capiscono che li sto volontariamente ignorando. E poi ci sono quelli in cui gente intorno a me dice “quanto vorrei avere di nuovo vent’anni” ed io mi sento ovviamente tirata in ballo perché sto strappando loro questo desiderio e magari do per scontato il peso che possano avere questi anni visti da fuori.
Ho sempre pensato che ogni età abbia le sue particolarità, la sua bellezza, le sue responsabilità; mi è capitato di dire di voler essere più grande ma solo perché ci sono volte in cui non credo affatto di avere vent’anni perché sulle spalle ne sento molti di più. È uno strano senso di incoerenza, se posso definirla così, ma sostanzialmente è così che ci si sente ad avere vent’anni e sentirsi per questo un passo indietro. Incoerente e in colpa. Se mettiamo poi che i 21 anni che arrivano sono più caparbi e insolenti dei 20.. 
Se un anno fa avessi dovuto aspettare i 21 anni, certamente non avrebbero trovato la faccia di bronzo che sono adesso. Li avrei accolti con esaltazione, con gioia, sin dalla mezzanotte, ma dato che i 21 anni arrivano con un anno di ritardo, si devono accontentare (e meno male!) di una candelina da spegnere. Neanche rosa, gialla. L’ebbrezza degli anni che passano si sente prima di compiere la maggiore età: la patente, le porte che si aprono, le responsabilità.. poi però arrivano e la magia si spegne. Si spegne perché, ad ogni buon conto, non cambia nulla. Il 24 gennaio hai 17 anni, arriva la mezzanotte, vola il tappo dello spumante, yuppi!, 18 anni. È il 25 gennaio fino alle 23.59, un minuto dopo hai già chiuso baracche e burattini. È l’attesa la parte più bella, più emozionante, più da protagonista. Una volta che passa resti ancora protagonista, ma un po’ più in disparte. 
Domani magari aprirò gli occhi e dirò “che bello quando avevo vent’anni”, guardandomi le mani rugose e la pelle segnata, ma in ogni modo so che mi guarderò con lo stesso sorriso che ora mi disegna il volto: che abbia venti, trenta o settant’anni, ogni età merita riguardo. Ogni età dona cose preziose. Ogni età è bella se affrontata con la gioia e la mente attenta e curiosa, perché sono i particolari a rendere belle quelle stesse età.

mercoledì 22 gennaio 2014

Caro Peppino, stanotte t'ho sognato

Caro Peppino,
ieri sera, come al solito, mi sono messa il pigiama e sono andata a letto presto. Prima di infilarmi sotto le coperte mi sono fermata a guardare il quadro con la tua immagine, quella che da pochi giorni rende più importante la parete della mia stanza. Ti ho guardato e ho stretto il pugno, ho riletto frasi di te e su di te e sono andata a dormire.
La notte è stata lunga, tormentata. Non riuscivo a dormire, mi giravo e rigiravo nel letto senza trovare pace, ho sognato a tratti ma la storia era sempre la stessa e per tutta la notte ho versato lacrime. Mi succede spesso, quando il sogno è carico di emozione. Caro Peppino, io questa notte ti ho sognato. Ricordo bene una chiesa, ricordo una piazza che non è la mia e che non so definire a quale luogo appartenga, ma ho vivida l’immagine di un pezzo di strada, un angolo, dedicato a te. Per terra, scavato nella pietra, c’era il tuo nome ed io guardavo dritto in quella direzione mentre la gente ci passava accanto con indifferenza. Io gridavo “è qui, fermatevi, è qui!” ma nessuno mi ascoltava. Ricordo tutta quella gente entrare in quella chiesa con molta fretta, il cielo era diventato scuro e nuvoloso, in procinto di piovere. Io non mi sono mossa, sono rimasta li. La pioggia cominciava a scendere a goccioloni e lì dove c’era il tuo angolino la pioggia era carica di terra. Tutto cominciava a coprirsi, il tuo nome non si vedeva più ed io volevo correre per togliere tutta quella terra ma non arrivavo mai a destinazione. Mi sentivo disperata, neanche stessi perdendo un fratello. Non so spiegarti come e perché, ti riporto solo quello che è stato e quello che ho sentito.
Ormai quell’angolo non c’era più ed io ero nuovamente sola. Una mano mi ha preso la spalla e girandomi ho visto una donna che tu conosci bene. Mi ha guardata, sorridendo, e mi ha detto solamente “è qui”, poggiandomi la mano sul cuore. Mi sono girata e la terra non c’era più.
Ho aperto gli occhi alla realtà, era tutto passato e non capivo. Erano le sette di mattina, mi sono alzata per bere l’acqua sentendomi frastornata. Poi non ho più chiuso gli occhi, mi sono rannicchiata sotto le coperte come se stessi proteggendomi da quella pioggia che aveva nascosto tutto. Tutto qui.
Stanotte ho capito come potesse, una sola notte, essere lunga, senza tempo, infinita.

martedì 21 gennaio 2014

Vado via per restare

Caro destinatario,
tu cosa faresti se si potesse andar via senza più tornare? Io non lo so, eppure sento sempre quelli che dicono di voler partire, di voler andare e andare via lontano. Ma andare dove? E le valigie le hanno già pronte? E cosa ci hanno messo dentro? Perché sai, per dire una cosa del genere o sogni o hai i piedi per terra e un biglietto in mano, che sia per 10 o per 1000 chilometri. Il più delle volte proprio chi dice di voler partire è il primo che resta a casa per una strana forza attrattiva che ti tiene legato al suolo che ti ha visto crescere. Se si potesse non tornare.. a me fa paura. Cosa farei io se potessi farlo? Se fossi negli anni Trenta o Quaranta del secolo scorso, forse avrei fatto quello che già fecero i miei nonni, avrei raggiunto la Germania, la Svizzera, luoghi che un tempo avrebbero potuto darti un lavoro pur non essendo figlio di. E che forse lo fanno tutt’oggi. Se fossi nata in quegl’anni, oggi sarei qui a raccontare di quanto mi avesse fatto bene l’aria diversa, forse con un pizzico di malinconia. Ma se dovessi partire oggi, sarebbe lo stesso? Il cuore, l’animo, sarebbe probabilmente in fibrillazione come prima di ogni partenza, ma per un giovane che decide di andare via le frontiere sembrano muri invalicabili, come se non ci fosse neanche il modo per spingersi oltre. La situazione che un giovane ventenne si trova davanti è, di fondo, già la paura che s’insinua nella mente di fallire, così nemmeno si tenta. Andare via vuol dire lasciare qua tutto quello che si è creato finora, ricominciare da capo con l’incertezza di quel che arriverà (o non arriverà). Per un giovane che studia e che magari ha trovato un lavoro che riesce ad occuparlo part time, partire non riesce ad essere la soluzione, anche se la speranza non muore; partire dovrebbe significare che vado via per stare meglio quindi, qualunque sia la meta, oggi come oggi io preferisco restare e forse sono tra quelli che comunque restando può dire di star bene.

Mi dispiace tanto pensare che le stesse persone che confidano nel fatto che i giovani sono il futuro sbarrino loro la strada per costruirlo; è come se il dottore ti diagnostica un male ma nessuno vuole curartelo, nonostante tu voglia guarire. Ovviamente è solo una similitudine, nella realtà (spero) non si dovrebbero avere casi del genere; il concetto, comunque sia, resta quello. E poi ci sentiamo dire che siamo choosy, che noi i lavori manuali li disdegniamo, che pretendiamo, ci lamentiamo e non concludiamo. Facile parlare.
In uno scenario come questo è facile dire di voler partire ma nessuno lo fa mai. Meglio vivere con l’amore di casa piuttosto che con l’angustia solitudine. Eppure io un giorno partirò e affronterò tutte le paure, le incertezze e quei muri invalicabili. In questo presente incerto è giusto buttare propositi e sogni sicuri per il futuro perché più siamo convinti, più possibilità di realizzazione si hanno. Quindi conservate quel desiderio di partire, di andare lontano. Conservatelo nella vostra mente, nel vostro cuore, nel vostro salvadanaio se vogliamo: sarà la spinta che, restando a casa, vi porterà lontano.

sabato 18 gennaio 2014

Tu non rispondi mai al telefono - cronaca da un Call Center

Caro destinatario, 
accade spesso che chi mi chieda come sta andando il lavoro si senta rispondere “tutto ok, ma è stancante” e sai cosa sento in replica? Una risata. Dei del cielo, come mi fa imbestialire la cosa! Ma che ti ridi? Non è mica semplice, e non sono neanche veritieri quanti millantano la semplicità che caratterizza il lavoro degli operatori di Call Center. A dire il vero, tra quegli individui che decantano tutto ciò, c’ero anche io ma ovviamente, da fuori, tutto appare più elementare: otto ore (sei se proprio non vuoi fare nulla) seduto su una sedia, al caldo o al fresco a seconda che sia dicembre o agosto, con una cuffia in testa e le macchinette a due passi. Se fai bingo, capita pure che ci sia il bar con le focaccine calde. E invece no! Quello che gli altri non vedono (o non sentono) rasenta quasi la pazzia. Ti alzi presto la mattina nel migliore dei casi, con la stessa musichetta odiosa della sveglia nelle orecchie; nel peggiore dei casi il tuo turno comincia alle 17.27 e finisce alle 23.42, quando la gente si è appena messa sotto le coperte e comincia a correre per casa perché il telefono squilla e immaginano che chissà quale parente sia morto o sia scappato di casa. Se poi chiami alle nove di mattina, le persone hanno così la bocca impastata dal sonno che riescono a spifferare al massimo un “bb m bbbssa”, e a quel punto capisci che non è cosa. All’ora di pranzo neanche a pagarle, ti parlano col cibo in bocca o con quaranta pentole a pressione sul fuoco che sembra stiano preparando il pranzo per un intero reggimento. E le nonne e le mamme che devono correre a prendere i bambini da scuola già alle undici di mattina, per paura che per l’una non riescano ad arrivare, ah, quello è il colmo.

- Pronto signora la chiamo da X per proporle Y. Ce l’ha in casa?
- E i fatti suoi quali sono?
Certo, caro cliente, perché io mi sono alzata questa mattina dal letto per sapere i suoi fatti, per consigliarle il giusto colore della cravatta o la borsa da abbinare. E di quelli che sono in riunione tutto il giorno, tutti capi d’azienda, e poi ci chiediamo dove sia la crisi. Il peggio capita quando incontri mariti che si fanno sottomettere dalle moglie e come cani bastonati dicono “ne ho parlato con mia moglie e.. non vuole”: ma insomma, signor Rossi, ma quanti anni ha? Mica la sua mogliettina è sua madre e lei ha quindici anni che le impedisce di star fuori fino alle undici di sera! Ma insomma, esca le palle, o la carta di credito che è meglio, e mi faccia questo contratto! Mica le faccio le moine per provarci con lei sa?
E lei, cara moglie, se le chiedo quale gestore telefonico ha e mi risponde che non lo sa perché se ne occupa suo marito, mica crede che me la dia a bere! Mi vuole far credere che le arrivino le bollette e le paga ad occhi chiusi? Non tanto per me, che alla fine se lei paga 200€ di bolletta e non vuole risparmiare io ci campo comunque, ma almeno evita di fare la figura della stolta. E cari genitori, non fate rispondere ai vostri bambini che non è proprio una cosa bella. Meno male che poi, tra una chiamata e l’altra, il tempo che non passa, arriva qualche romano o napoletano che qualche risata te la fa fare e ti invita a passare ipotetici weekend solo perché “dalla voce sembra una bella ragazza”. Da dire poi, che in quanto a parolacce, le donne ci vanno giù pesante più degli uomini.
Insomma, di pazienza ce ne vuole tanta o esaurisci. I vecchietti non ci sentono, dicono di avere la UINDI a casa o la Vodafòne e lì ti scappa il sorrisino. Al top troviamo poi quelle che ti chiamano, se lavori al centro assistenza, e ti dicono “scusi il disturbo sa”, perché ovviamente io ero seduta su di una sedia, a colloquiare vivacemente con la collega accanto mentre mi limavo le unghie e la sua chiamata proprio non me l’aspettavo. Quindi si, la scuso, ma per la sua altezzosa ignoranza.

Quindi, se tu che mi leggi sei un cliente o qualcuno che ha a che fare giornalmente con questo tipo di problemi, ti dico solo una cosa.. ABBI PIETà!

venerdì 17 gennaio 2014

Diario di una donna al volante


Caro destinatario, 
questa lettera nasce da una paura insinuatasi dentro di me da ormai un po’ di anni: la retromarcia. Infima, nauseante, tremenda retromarcia, che diventa ancor più sconcertante se coloriamo (o ingrigiamo, punti di vista) il paesaggio con un vico stretto e due macchine a intralciare il passaggio. La cosa si è svolta più o meno così (perdona la pochezza di particolari):
premetto che, come ogni eroe che si rispetti, anche io stasera avevo un compagno d’avventure che mi limiterò a chiamare Oreip perché vuole restare in incognito; per farla breve, è come Robin per Batman, la ragnatela per Spiderman o la mutanda per Superman. Insomma, io e Oreip stavamo dirigendoci verso la macchina dopo un pomeriggio intenso (e lacrimoso) di studio, tant’è che i nostri visi e le nostre mani risentivano del duro lavoro a cui ci eravamo sottoposti di nostra sponte.
- Oreip, come sono felice: farò una retromarcia semplicissima, non ci sono macchine dietro di me!


Ed invece, la sera di quel venerdì grigio e coperto in cui inizia la nostra storia, nel cielo nuvoloso nulla faceva presagire le cose strane e misteriose che di lì a poco sarebbero accadute. 
Mi prese il panico. Il terrore. Lo sconforto, la desolazione, lo svilimento, l’angoscia!, la disperazione, lo smarrimento e sentivo un formicolio risalire dalla punta del mignolo a quella della spalla, segno certo di un infarto in arrivo. Lei era lì e le luci anteriori mi guardavano sbieche, quasi volessero sfidarmi. Oreip cercava di sorreggermi, mi sentivo svenire. “Ce la puoi fare!”, mi ripeteva, ma le mani tremavano così tanto che quasi non riuscivo a inserire la chiave nella serratura dell’auto, neanche ci fosse un’offendicula ad impedirmelo. Cloc. Aperta. Un sospiro, cautamente mi siedo e mi accomodo, riprendo fiato, cerco di ritrovare la calma e la pazienza per riportare entrambi sani e salvi a casa. Accendo il quadro, il tachimetro, il contagiri e l’indicatore della temperatura sono ancora a terra inerti, quasi avessero gli occhi chiusi col sentore di quel che stava per accadere. La lancetta del carburante invece sale e mi dà un po’ di speranza, lui è pronto. Giro la chiave, metto in moto l’auto e comincio a sterzare completamente verso destra. Mi giro per trovare conforto nel mio compagno, lui mi guarda con assenso e stringe i pugni. Ho le mani gelide e un brivido percorre la mia schiena, lungo la spina dorsale, ma rilascio piano la frizione. Si, il freno a mano l’ho tolto.
L’auto davanti mi è troppo vicina, mi serve più di una mossa per riuscire a districarmi mentre mi prende l’ansia del conta manovre: -15, -14, -13.. sudo freddo ma riesco ad uscirne indenne. Oreip mi dà il cinque e la tensione si allenta di un punto ansia. La mia auto ora è parallela a tutte quelle parcheggiate li sul lato sinistro e mi permea una sensazione claustrofobica, tanto che mi pare che i muri di quel vico si stringano man mano cerchi di uscirne. Guardo lo specchietto retrovisore, uscita da quel vico mi aspetta una salita e sarà quella la parte più brutta. Un centimetro dopo l'altro, pazientemente e quarantacinque minuti più tardi, siamo all’imbocco della via. La curva è ripida, la sterzata complicata, tanto da richiedere l’aiuto esterno. Ho scelto, ovviamente, il compagno che siede alla mia destra, così con quattro braccia e altri venti minuti dopo ci siam trovati sulla pendenza.
- E ora che faccio? Sento le gambe cedermi, non riuscirò a tenere freno e frizione ancora per molto!
- Stai tranquilla. La pazienza è la virtù degli audaci, guarderò io dietro ma.. oh! Attenta alla libreria. Ma cos’è quello? Sembra un libro di origami! Avvicinati, fammi vedere meglio!
- Ti prego, non farmelo fare.. non sono sicura di..
- Ma si! Ti aiuto io!
E la macchina comincia a indietreggiare, sempre più, e Oreip mi dice di rallentare ma non ci riesco, non ho più il controllo, non ricordo più come si fa. Maledetti i tuoi origami!, ricordo d’aver detto. Vedo la salita allontanarsi come se stessi in un treno al posto opposto rispetto alla direzione di percorso. Aiuto, aiuto!, ma nessuno ci aiuta. BUM. Frammenti di vetro sono sparsi ovunque, l’auto ha preso la forma del cigno sulla copertina del libro di origami e il resto dei fogli sono sparpagliati per aria. Qualcuno grida “i miei libri! Salvate i miei libri!” mentre una marea di persone si appropinqua al luogo del delitto cartaceo un po’ per avere qualcosa di più da raccontare l’indomani a Cummà Marij e un po’ perché visibilmente preoccupati per l’incolumità di quanti coinvolti. La stima fatta dalle forze dell’ordine intervenute sul luogo è di 289 pagine morte e 79 ferite gravemente, solo 42 con qualche strappo qua e là. Oreip e io veniamo portati da un meccanico che ha cercato di risolvere l’arcana figura in cui eravamo intrappolati, ma possiamo dire di essere stati abbastanza fortunati: Oreip ha solo una mano a forma di gru mentre io dei graffietti da carta sulle braccia e sulle gambe. Purtroppo non ricordo altro, sono solo triste che ora dovremo abbandonare l’università per ripagare i danni provocati dalla nostra auto. E meno male che non sono superstiziosa, altrimenti non oso immaginare come sarebbe finita.

giovedì 16 gennaio 2014

Cogito ergo sum - Diventiamo quello che pensiamo

Caro destinatario,
a quasi venti giorni dalla mia prima lettera a chiunque vesta i tuoi panni, anche stasera ho visto un film o, meglio, un signor film (e per me è un evento raro, dato che con la tv ci sto litigata).


Con la regia di Phyllida Lloyd ed una bellissima e convincente Maryl Streep, la storia racconta di una grande donna diventata “primo” Primo ministro inglese donna (ed aggiungerei l’unica), all’età di 54 anni, perseverando una fermezza ed una tenacia dimostrate sin da giovanissima, e il tutto visto con i suoi stessi occhi da ottantenne che ancora lottano contro le ingiustizie e il nemico più grande: se stessa. L’intera narrazione si svolge con continue regressioni e flashbacks quasi come se il passato e il presente si fondessero in un tempo indefinito ma carico di sentimento. Per quanto l’interpretazione possa esser stata stupefacente, è stata la storia in sé e farmi riflettere (e forse, è giusto che sia così): incredibile è pensare a come una donna possa aver davvero avuto tanta forza, tanto coraggio e tanta grinta da sfidare quanti non credevano in lei.. e se non erano tutti, erano comunque abbastanza. Chissà cosa sarebbero stati quegli anni senza la sua impronta; chissà quanti, da lei, hanno tratto ispirazione ed insegnamento, forse relativamente da un punto di vista politico, condivisibile o meno, quanto da uno umano. Straordinario è pensare come tanta risolutezza sia potuta risiedere in una sola donna, che non può che essere definita una Lady di Ferro. La Lady è stata lo schiaffo morale a quanti non credevano che una donna potesse ricoprire alte cariche politiche; che non riuscissero a pensare con la propria testa; che non potesse essere all’altezza di un così grande compito. La Lady ha dimostrato di saper governare come un uomo ma soprattutto di saper sbagliare come un uomo. È riuscita a dimostrare che non aveva nulla da dimostrare, che aveva da agire, che aveva da pensare senza paura di esprimere tali pensieri. La prova provata che essere donna non è una maledizione, che la donna non è simbolo di inferiorità. Parlo per quanti ancora credono che il posto della donna sia un gradino sotto all’uomo, parlo per quante nascono donna e non sanno che fortuna hanno. Parlo per quante dimenticano di aver un orgoglio ed una fierezza innate e che hanno nelle mani un grande potere ma non lo mettono in pratica. A me ha lasciato tanto, compresa la convinzione che con costanza, risolutezza e convinzione si possono fare grandi passi: giorno per giorno, magari anche quando non me ne accorgo, crescono e si saldano in me taluni principi che mi rendono la certezza di non aver nulla di cui aver paura e nulla in meno degli altri. Ti lascio con una frase che mi è rimasta dentro, sperando che possa essere un faro anche per te.
« Cura i pensieri: diventeranno parole. Cura le tue parole: diventeranno le tue azioni. Cura le tue azioni: diventeranno abitudini. Cura le tue abitudini: diventeranno il tuo carattere e cura il tuo carattere perché diventerà il tuo destino. Diventiamo quello che pensiamo. »

mercoledì 15 gennaio 2014

martedì 14 gennaio 2014

Punti coniugati

Questa è per chi riesce a leggere

tra tre punti di sospensione,

perché non possano dimenticare

che si è sempre piccoli abbastanza

per trovare un posto tra ognuno.

domenica 12 gennaio 2014

Da piccolo fanciullo 'ncominciai

Caro destinatario,
stasera avevo deciso di non scrivere perché tanto non avevo (e forse non ho) nulla da dire ma ho cominciato a pensare alla lettera in sé. Io ti scrivo e il non sapere chi sei, che livello culturale hai, quanti sono gli anni che segnano il tuo viso, è già complicato anche se un problema come questo l’abbiamo superato – per ora. E se scrivessi a me stessa? Nel senso, ad oggi che consigli potrei dare alla me che ha ancora pochi anni? Così mi è venuta in mente qualcosa del genere:

Cara me del passato,
siediti n’attimo che qua le cose non stanno affatto bene e leggi attentamente quello che sto per dirti perché da qui dipenderà tutto il tuo/nostro futuro.
Chi ti scrive è la Te del futuro; ti scrivo all’alba dei miei primi 21 anni e di vita, posso dirti, ne ho vista poca ma abbastanza. Sei contenta? Bene, perché anch’io lo sono. Perché scriverti, allora? Semplicemente perché a volte, col senno di poi, avrei voluto essere dove tu sei, qualche anno indietro, e non fare questo o dire quella parola, dalla cosa più piccola a quella più grande. Ad esempio? Vediamo. Imparerai a camminare, come tutti, ma la corsa verso chissà quali braccia ti farà rimpiangere di aver poggiato il piede per terra: i primi segnali di problemi d’equilibrio. Il naso ti farà male e ci metterai un po’ a riprendere a fare i tuoi passi per quella diffidenza che ti si è creata dentro ma fino alla fine addirittura si instaurerà un rapporto d’amicizia tra te e il pavimento; per gli anni dell’asilo non posso dirti niente perché ti lasceranno tanto, come quella persona che ti dimostrerà che l’amicizia può perdurare nel tempo anche senza vedersi mai. Le elementari saranno carine, saranno gli anni che faranno uscire ancor di più la tua passione per i libri. L’unico consiglio che posso darti è questo: se entrerà in classe una donna dalla pelle cadente e con un secchio alla mano, sbattiglielo in testa prima che possa segnare profondamente la vostra psiche. Se vedi (o non vedi) qualcosa di strano, avvisa subito mamma che poi ti ritrovi con i tappi di bottiglia sul naso vita natural durante e levati quel maledetto vizio di correre per casa, tanto mostri non ce ne sono e gli interruttori non scappano ed eviti di correre al pronto soccorso per 6 punti di sutura. Magari, ehm, evita di correre per le discese, che poi non riesci a frenare e ti schianti col mento contro un muretto. Le scuole medie, posso dirti, le ricordo molto felicemente: tornerà con te quell’amica con cui condividevi il mignolo all’asilo e comincerai a guardare le cose con quattr’occhi diversi. Prenderai sotto gamba il professore di matematica, un po’ strampalato e un po’ distratto, quindi ti conviene metterti sotto perché i guai arrivano dopo. Non pretendere di voler giocare sempre e a tutti i costi alla pallavolo che poi a casa te ne torni con un dito rotto o con un ginocchio sfracellato. T’iscriverai al corso di teatro e qui sfogherai la voglia di cantare, quindi magari approfondiscila meglio e non aver paura, perché la paura ti preclude tante cose e ti chiude tante porte. Conoscerai un sacco di persone, ma alcune puoi proprio evitarle. E non preoccuparti per gli esami di terza media: un calcio al sedere e via. Sulla scelta del liceo ci penserei un attimo: magari ti farebbe più piacere frequentare un classico e passare cinque anni almeno con un po’ di sorriso anziché con la rabbia e con la repressione. L’altra faccia della medaglia sono le persone che conoscerai e con le quali condividerai il bello e il cattivo tempo e che saranno, probabilmente, la medicina che cura tutti i mali. Ricordati sempre di fare i disegni e di portare la cartellina, che la tua prof non perdona; studia sempre filosofia e latino perché gli arretrati ti guarderanno con sguardo arcigno e applicati un po’ di più su quelle nozioni di matematica che proprio ti pesano. Fidati, le notti che passerai sveglia saranno molte di meno.
Concludi il corso d’inglese anche se hai tanto da studiare, perché studiare la lingua ti farà bene. Diffida di chi dice d’esserti amico e poi ti lascia con un castello campato in aria. Dimentica tutto il dolore e lascia perdere i pregiudizi, che son tanti quelli che ha la gente senza che ti ci metta a rimuginarci sopra e dì di si per ogni follia che probabilmente non le ripeterai più. Dì ai tuoi nonni che gli vuoi bene prima che non possa farlo più. Evita le litigate inutili con i tuoi genitori, perché ti comporterai da incosciente ed immatura quando dovresti dimostrare altro. 
Cara piccola me, non spaventarti. Mentre ti scrivevo, ho capito che, anche se potessi, non avrei mai il coraggio di inviarti questa lettera. Amerai ogni sbaglio fatto sulla strada perché è grazie a quelli che oggi sei quel che sei e credimi che ne andrai fiera, senza superbia o altezzosità, semplicemente ti piacerà vivere la vita che ti sei creata. Anche se la strada è ancora lunga, per te ancor di più, ricorda che hai una certezza nella vita: qualsiasi scala, gradino o marciapiede, alto o basso che siano, non lo vedrai, ma non preoccuparti: avrai sicuramente degli amici meravigliosi pronti a ridere lì con te.

Cronaca di una bibliofila a Lecce

Caro destinatario, 
sono di ritorno dal mio sabato sera all’insegna dell’arte sensoriale. Posso chiamarla così? In fondo stasera si sono messi in moto tutt’e cinque i sensi, quindi ti prego di lasciarmi passare il termine com’è passata, ormai, questa toccata e fuga a Lecce. È vero quel che dicono di lei: che emana calore da tutti i vicoli, che senti l’allegria nell’aria, che ti segue ovunque tu vada con quella sensazione di casa. Mentre passeggiavo tra un vico e l’altro, scrivevo (o meglio) appuntavo sul mio taccuino virtuale tutto quello che mi capitava sotto gli occhi: nomi di strade, di insegne, cartelloni e bar ma, purtroppo, per un arcano mistero è andato tutto perduto. Quello che riporterò, per tanto, qui di seguito sono semplicemente i ricordi delle impressioni sensibili che mi son rimaste, sperando che questo mi serva da lezione per la prossima volta. La cosa, alle 21.37, si è svolta più o meno così:

siamo cinque amici, una radio, uno macchina e i finestrini appannati di un po’ di eccitazione per quel viaggetto fuori porta che ci apprestiamo a compiere. L’auto freme, la lancetta della benzina non vede l’ora di muoversi e le strade sono semi-deserte, quasi vogliano agevolare quel nostro spingerci più in là. Il tempo non è dalla nostra parte, eppure non gli abbiamo fatto niente, vogliamo solo andare via e respirare aria diversa ma la nebbia scende fitta e ancora più fitta che ho capito cosa significa non vedere un palmo dal naso. Sembriamo soli e abbandonati sull’asfalto scortato dalle bianche strisce tratteggiate e l’unica cosa a farci compagnia sono le luci accese a festa, un po’ a lampeggiare per dire “io ci sono”. La cosa dura per tutto il tragitto, tant’è che appare interminabile se non fosse per la complicità che è dalla nostra parte, così cominciamo a cantare stupide canzoni o vecchi idoli e il tempo scorre con le ruote dell’auto. Il paradiso lo scorgiamo su un cartello azzurro: LECCE. Siamo arrivati!, ed io fremo, mi sembra che tutto sia più bello, dai semafori alle targhe delle auto ai ragazzini per strada ai cartelli pubblicitari: tutto è leccese, e questo ci fa ridere un po’. Certo, ridiamo della nostra stessa ridicolezza, perché sembra siamo partiti per chissà quale Paese lontano ed invece siam cascati solo un po’ più giù. La sfortuna del viaggio si accompagna alla fortuna di un comodo parcheggio leccese. Lasciamo la macchina, ci risistemiamo e qualcuno è già pronto a vestire i panni del turista con la macchina fotografica del cellulare. Quello che a me colpisce sin da subito è la monumentalità di quel che vedo e vien scontato fare il paragone con la propria cittadina: la mia Crispiano, in confronto, posso tenerla nel palmo della mano. Cominciamo a camminare basandoci su piccole indicazioni di chi la città l’ha vissuta da quando ha cominciato a fare i primi passi, senza una cartina ma con il GPS alla mano: siamo o non siamo la generazione ultra tecnologica? Ad accoglierci, la chiesa di Santa Chiara nel centro storico di Lecce, in piazza Vittorio Emanuele II, ovviamente gremita di gente che cammina e si dirige in ogni dove, ma lo spettacolo più grande è Piazza sant’Oronzo, con l’enorme e imponente colonna, e l’Anfiteatro Romano (leccese). Qui scattiamo fotografie da ogni angolazione e la cosa che più mi stranisce è vedere la gente che passa davanti a tanta bellezza e che ovviamente resta quasi impassibile e indifferente. Dico ovviamente perché quella piazza fa parte della loro vita e della loro quotidianità, del loro ordinario, mentre per noi è la bella straordinarietà che colora questo momento. Avanti all’Anfiteatro ci coloriamo di blu, le luci hanno quella sfumatura bizzarra, e la cosa ci fa sorridere. Riprendiamo il nostro tour del sabato per Vico dei Sotterranei (il che mi rimanda a I sotterranei della cattedrale, Marcello Simoni), dove ci accorgiamo di una scritta sul muro: Erri De Luca, la Tap va sabotata, tutto in rosso, tutto in maiuscolo e le lettere tutte piccole e uguali, come se fossero state stampate con un timbro. Il tutto è messo in una sorta di riquadro, per cui penso bene di ringraziare Erri De Luca per essere accorso questa sera. Il vico è ricco di lanterne colorate ed è inevitabile non pensare che la città continui a trasmetterti l’allegria. In via Guglielmo Palladini veniamo fermati da un fotografo che imprime ancor meglio quel momento ed è bello venir presi in considerazione in una città sconosciuta, come se la nostra presenza non passasse inosservata. Il fotografo del Nando’s ci saluta e noi proseguiamo. Mi diverte la scritta di un bar, Quante storie per un caffè, e mi lascio trasportare dalla vita semplice e amara allo stesso tempo, perché quella frase racchiude una lamentela e una gioia. Niente che, ovviamente, la bevanda scura non possa lenire. Per quel vico, ultima tappa è Piazzetta Giosuè Carducci con il convento di San Francesco d’Assisi recante la scritta “Religioni et bonis artibus”, a caratteri cubitali. Risalendo quei vicoli, mi fanno segno di guardare in alto: un campanile enorme spunta da alcune case lungo la via. Wow! Roba da restare a bocca aperta. Seguiamo ancora i tasselli che compongono la marmorea passerella fino a Piazza Duomo: lo splendore della cattedrale illuminata e tutto il resto in penombra, a voler volontariamente risaltare quella maestosità che la rende degna del nome. Ancora non mancano le foto e alcuni aneddoti raccontati da chi, della storia di quel posto, ne sa qualcosa in più. Ci fermiamo davanti alla vetrina di un negozio di pelletteria in cui compare un mappamondo, delle cartine geografiche e la statuetta di Atlante che sorregge il peso del mondo e questo mi riporta con i piedi per terra e (per qualche secondo) al mio tanto temuto esame. Accantonando il tour, ci accorgiamo di avere un certo languorino: tornando in piazza sant’Oronzo, entriamo al Caffè Alvino che fa anche da pasticceria per assaggiare i pasticciotti. La gente è ancora tanta ma quel che mi colpisce è l’odore che catturo, che non è nient’altro che il solito odore che caratterizza i bar di ogni paese. Forse è una cosa a cui non si dà conto, ma è un piccolo modo per non sentirsi stranieri, è come se portassi sempre con te gli odori più familiari. Ultimissima tappa, il Nenè, bar anni ‘70 ricco di colori e forme geometriche, tanta bella musica e souvenir che ricordano i Beatles, Mina, I Rolling Stones e quanti hanno fatto di quegli anni gli anni d’oro. Consumiamo il nostro drink di fronte all’anfiteatro, siamo i soliti cinque amici, una panchina e i piedi stremati ma comunque tanto felici, Lecce sa di vita pura. È l’una passata e la gente ancora gira in bicicletta, porta a spasso il cane e ride perché quella città lo permette e ti invita a farlo. Una cosa ti dirò che probabilmente ti sembrerà strana ma mi ha colpito vedere tanta gente calva: forse è vero che Lecce è così bella da strapparsi i capelli.

sabato 11 gennaio 2014

Fenomeno (ovvero le cose che accadono al di là del cielo)

Caro destinatario,
per la prima volta, oggi ho detto a mia madre: “Mà, è vero quando dicono che non bisogna giudicare un libro dalla copertina. I pregiudizi sono proprio infami!”, e tutto questo perché devo dare un benedetto esame di geografia che mi sembrava non aver alcuna attinenza con la mia facoltà, poi ho aperto questo famoso libro e ci ho capito qualcosa di più quando ho letto “lineamenti di geografia antica” o una cosa del genere. Ovviamente prima mi sono un po’ martoriata, poi ho proseguito con una piccolissima spinta in più. Siamo partiti proprio dai tempi antichi, quando Anassimandro ed Ecateo, sempre dopo aver fatto i compiti, uscivano di casa e andavano a prendere a raccolta Aristotele e Pitagora per giocare a calcetto ma la storia era sempre la stessa: decidere se giocare con un pallone piatto come la Terra o con uno sferico come.. la Terra, allora finivano per litigare finchè faceva buio e le rispettive mamme li richiamavano a casa.

Al di là di questo (fino a domattina non voglio sentirne parlare), stasera mi è capitato di guardare il cielo come non succedeva da qualche sera. Ho alzato lo sguardo e c’era la luna, sono sicura che fosse bella ma non c’ho dato conto più di tanto, o almeno non tanto quanto ho fatto con il cielo in sé: una distesa d’acqua scura, mi ha dato l’impressione di un mare calmo, un oceano mare buio come ci si aspetta sia il colore della notte, e nella mia mente, ora, non riesco a figurare alcuna stella. Non ne ho viste, non me ne sono accorta, non ce n’erano, e mi è venuto da pensare che forse la nostra mente plasma, distorce l’immagine delle cose in base a quello che abbiamo dentro. Sai perché, altrimenti, a volte ci concentriamo su qualcosa senza averlo apparentemente deciso e tutto il resto scompare? Come se tu alzassi gli occhi per guardare il sole ma devi chiuderli così tanto, fino a farli diventare fessure, sicché vedi tutto meno quello che ti circonda. Non so, eppure sono convinta che oltre il cielo sensibile ci sia altro, un posto dove la materia non è più materia e tutte le voci diventano silenzio. Un posto dove c’è mancanza di luce, dove camminare diventa l’occupazione principale di ogni giorno, eppure è il posto più bello del mondo. Ci credi? Forse è lì che una parte di noi si dirige quando stiamo cominciando a realizzare quello che il destino ha in serbo per noi, quello che noi abbiamo in serbo per noi, perché la realizzazione non è altro che un volo con destinazione da scoprire minuto per minuto. Ci credi? Forse non è proprio così, ma stasera mi piace pensare che tutto quel buio fosse in realtà il muro trasparente per quel mondo al di là del cielo e che qualcuno lo stesse silenziosamente raggiungendo senza che nessuno se ne sia accorto. Bello credere che, da un’altra parte rispetto a questa, qualcuno abbia avuto la forza di spiccare il volo e realizzare se stesso, perché non è mai troppo tardi per chi decide che questo è il momento.

giovedì 9 gennaio 2014

Amor ch'a nulla amato si fotta

Caro, caro destinatario,
tu sei stato mai uno di quelli che ha giurato amore eterno all’amata? Io si. Nel senso che mi è stato giurato, ovviamente. No, ma pensavo ad altro. Pensavo all’amor pigro, quello che accomuna la mia bella generazione, il male del secolo. È vero, come dice mia nonna, che non ci sono più valori, è vero! Prima alle donne si faceva la corte, si facevano i chilometri per vederle cinque secondi al giorno, ora esiste il morbo del telecomando lontano dal divano: piuttosto che alzarti a prenderlo, aspetti che venga lui da te. Ma sveglia!
Per una esegesi completa, ti racconterò la storia di un mio lontano parente: la mia pro pro pro pro zia era figlia di un fruttivendolo e di una acquaiola. Una ragazza tranquilla, aggarbata, dai modi fini e sopraffini, tant’è che in paese la chiamavano “La Ninfa”. In quello stesso paese c’era anche un ragazzo dall’animo egocentrico, superbo e vanitoso, di quelli che “io sono così, io sono parente a quello, io spacco il mondo”, che un giorno s’imbatté in una zingara che girava per la cittadella chiedendo l’elemosina.
“Buon giovane, voi che dite di aver compiuto gloriose gesta, me la dareste una moneta?”
“Vecchia! Sciocco da parte tua pensare che possa provar pena, non avrai il mio denaro!” e se ne andò dritto per la sua strada. La zingara lo guardò, gli lanciò un paio di maledizioni in ostrogoto e sparì.
Quello stesso giorno, il giovane Pollo (il nostro eroe veniva chiamato così da quanti non sopportavano la sua spavalderia) venne ricoverato d’urgenza. Epilessie amorose. Il ragazzo aveva cominciato a saltellare a destra e a sinistra urlando “Ninfa, Ninfa, na guardata d'uocchie ca songo ddoje saette, sò fulmine, sò lampe, songo tuone! Io ti amo!” e nessuno lo azzeccava più. Il medico lo fece andare a casa, dicendo che nulla più poteva fare: quell’ospedale non curava i mali del cuore. (Che ti stupisci? Non hai mai sentito parlare di malasanità?)
La Ninfa, da parte sua, rabbrividiva al sol pensiero che Pollo l’amasse. “Piuttosto sposo una pianta d’alloro!”, diceva spesso. È anche vero che la mia prozia aveva anche un altro amante, un adorante, un ammiratore insomma: U’ Cipp, perché era alto (o basso) quanto un ceppo d’albero. “Non se ne parla”, rispondeva il padre all’argomento matrimonio, “io nipoti bassi non ne voglio”, così U’ Cipp sconsolato scappò con una compagnia circense a fare l’uomo albero.
Pollo pensava d’avere il campo libero così, mentre la Ninfa era alla fonte a riempire delle giare d’acqua, cominciò a correrle incontro e ad urlare “Ninfa! Amore mio, sposami! Ti renderò la mia regina!” “Più che re, ti vedo bene come giullare, buffone! Tzè!” e in men che non si dica la piazza era diventata il circuito di Monza. Più lei scappava, più lui la rincorreva, ma nessuno dei due aveva visto la zingara che, quatta quatta, si era nascosta vicino la fonte.
“Aiutatemi! Santi numi, piuttosto divento una pianta d’alloro, ma non sposerò mai questo imbecille!” e così fu. La zingara esaudì la sua richiesta e divenne pianta. Pollo decise di rimanerle accanto, giorno e notte, e se la sposò: lui, quel giorno, aveva proprio una bella coroncina.

Visto? Questo è penarsi per trovare e avere l’amore. Questa è la vera gioia: preferire una donna alloro piuttosto che una telecomando. Almeno, la prima insaporisce la vita.

mercoledì 8 gennaio 2014

Buonanotte ai suonatori

Caro il mio destinatario,
meno male che ci sei.. o che non ci sei. Insomma, umpf. Ti odio di nuovo, arrivati a questo punto (o iniziando da questo punto) comincio sempre ad odiarti. Mi sento come quel tipo col teschio in mano, come si chiama, dai aiutami, quello del dubbio amletico.. boh, vabbè. Quello la notte mica dormiva, faceva avanti e dietro nella sua stanzetta, su e giù per le scale del castello, tant’è che la mamma non gli diede più la paghetta per ricomprare i tappeti che aveva consumato per il tanto camminare. Essere o non essere.. o sei bianco o sei nero. Eppure penso che in medio stat virtus quindi, che tu sia o non sia, esisti, concretamente o idealmente, ed io ti conosco indipendentemente dall’esperienza e dall’impressione sensibile. Che fa Kant, ah?
Eh, però se ogni volta devo giustificare il tuo essere o il tuo non essere, non la spicciamo più. Si, lo so che non sei tu a chiedermelo, ma sembra strano ogni volta rivolgermi a te come ad una persona reale. Mi prometti che, se un giorno decidessi di farti carne e ossa, verrai subito a trovarmi? Pure per dirmi “nah, sono io, basta che la finisci”, e giuro che dopo il “Caro” metto il tuo nome e me la finisco.
Sai cosa, o meglio, chi potresti essere? Un musicista, un suonatore! Sai quanto sono generosi quelli che lavorano la musica? Ti danno tanto e non ti chiedono niente. Alcuni di loro diventano il tuo psicologo personale, ti leggono dentro e ti tirano fuori cose che nemmeno tu sapevi ci fossero. Sai quanta magia hanno nelle loro mani? E quando dalle mani passano alla voce, senti un calore che ti avvolge e ti senti piccola, come se avessero scoperto il tuo segreto e lo stessero urlando al mondo. E poi hanno quella voglia di fare, quella voglia di inventare, che se ti passasse accanto una nuvola di pioggia nemmeno te ne accorgeresti. Sono i medici che curano qualsiasi tristezza, qualsiasi magone, e la loro riconoscenza è la nostra voce che cammina con la loro. Belli.
In un’altra vita, probabilmente, imparerò a suonare uno strumento, in questa già è tanto che azzecco il bottone giusto del citofono. Oppure diventerò una filosofa. Tu ridi, io parlo seriamente! Sai come funzionava ai tempi dei Greci o dei Romani? Si, lo so che non c’eri e nemmeno io, ma te lo racconto comunque.
In quel tempo, a Roma vigeva un governo fatto di persone potenti e di un certo ceto sociale, un po’ come adesso, e proprio come ora i suddetti non facevano una beata mi..seria tutto il giorno.
“Mamma mia, questi ci giudicano”, diceva uno, “dobbiamo inventare un modo per oziare e non dare nell’occhio”, e da qui la parola otium. Cosa facevano quelli che otiavano? Andavano a teatro, facevano sport, e il tutto per pura ricerca intellettuale.
“Padrone, posso oziare anche io? Voglio trovare me stesso”
“Puah! Schiavo, tu lavora! Non credere che sia cosa facile, non tutti possono sopportare le fatiche della mente!”, perché ovviamente oziare era una professione riservata a un’élite di prescelti. Meno male che il buon vecchio Catone fu restìo a questa tendenza, dicendo che i giovani erano viziati. Di qui il detto “l’ozio è il padre dei vizi”. E non credere che Orazio fu tanto illuminato, che il Carpe Diem gli venne in un momento in cui sopraggiunse la stanchezza e “colse l’attimo” per farsi un pisolino. Eppure gli oziatori a livello agonistico erano tutti adorati, tutti visti di buon occhio. Erano i saggi, quelli a cui rivolgersi in caso di malessere, come i musicisti! Stai male e ricorri alla saggezza della musica. Ecco, proporrei un otium musicale, così tutti son contenti e Nessuno può dire niente, che tanto pure lui si appisola mentre se ne va in giro per mare con i compagni mentre la Signora Nessuno è a casa a filare e sfilare le mutande. Quelle del marito, d’intende. 

Caro Orky, cara catastrofe

Caro destinatario che c’è ma non so chi è,
la smetteremo mai di avere questo rapporto ambiguo? Insomma, o ti mostri a me o non ti scrivo più. Qua finisce poi che io vengo presa per pazza, a parlare con nessuno, e tu ti gingilli beatamente nel tuo dove a ridacchiare di me. 
La conosci la storia di Quel Tale che, con i compagni, andò a rifugiarsi in una caverna? La caverna era pure abitata da un gigante mostruoso, pensa te che fortuna, e il tizio aveva un solo occhio. Già, c’è gente che due occhi non ci vede e questo con uno solo aveva imparato a conviverci, guardando ora a destra e ora a sinistra. Beh, fatto sta che il gigante ciccioso non voleva che altri profanassero la sua bella caverna sudicia, così cominciò a sbraitare, e a urlare, e a scalciare, e a digrignare i denti, e a scalpitare, e tanti altri –are che nemmeno sarebbero sufficienti a descrivere la furia di Orky verso quei poveri cristi che volevano solo ripararsi dalle intemperie, e così accade!, ma come prigionieri. Orky aveva in mente proprio una bella colazione, per l’indomani. Cosa ingegnò allora, Quel Tale? Non potevano certo morire lì, tra la puzza e i peli disseminati ovunque. Aspettano, quindi, che Orky apra la caverna per far pascolare le greggi (grandi allevatori, i giganti), premunendosi di un tronco affilato che, in proporzione al gigante, poteva benissimo fungergli da stecchino da dopo pasto. Ebbene, dopo un compagno mangiato ed uno finito comunque male, Quel Tale gli offre del bacco per far pace. “Oh possente Orky, cosa posso contro di te che sei il re dei re? Brindiamo alla tua salute!” e Orky non se lo fa ripetere due volte! Un po’ per lusinga, un po’ per lenire la ferita d’amore (la signora Orkessa era scappata con il suo migliore gigantamico), Orky beve, trangugia e si fa anche scappare un piccolo burp di gradimento. I piedi diventano sedie con le rotelle, le greggi si tramutano in foreste bianche, e Orky non desiderava altro che ringraziare il suo buon amico.
“Dimmi come ti chiami, così poi al piatto con le tue ossa e le tue carni ci do il tuo nome”, disse. “Ah, non so come ringraziare tanta bontà. Mi chiamo Nessuno”, e quello, che aveva bevuto così tanto che il suo unico occhio si era sdoppiato, ci crede senza replicare e s’addormenta come un bambino gigante.
Quel Tale chiama a raccolta i compagni, afferrano lo stecchino enorme e cominciano ad arrostirne la punta come si fa con i marshmallow sul fuoco. Un passo alla volta, in silenzio, un, due, zac!, e il gigante è bello che accecato. “Disonesto! Dopo che ti ho promesso il tuo nome al piatto! Nessuno mi ha accecato, aiuto! Nessuno mi ha accecato!” e Quel Tale e i compagni se la ridevano per la stoltezza del gigante. Arrivano, attirati dalle urla, i fratelli del mostro.
“Oè! Ma c’è proprio bisogno di gridare a quest’ora? Domani si lavora, ma insomma!”
“Aiutatemi, vi prego! Nessuno mi ha accecato!”
“Orky, sei bello grande per questi giochetti. Vai a dormire su, e se non ci riesci mettiti a contare le pecore”.
Ovviamente Quel Tale e i compagni fuggono via sulla loro nave, spernacchiando e schernendo Orky, sedotto e abbandonato.


Bene, caro Senza Nome, la conoscevi questa storia? Era per dirti che a scrivere che Nessuno mi legge, poi mi danno dell’esaurita. Or dunque dimmi: quando ti deciderai a crescere?

martedì 7 gennaio 2014

Non ad modum iterationis sed continuationis

Caro destinatario senza nome,
ecco, così riesco già a vederti un po’ meglio. Nella mia mente, ovvio.
Ho passato giorni di silenzio, giorni in cui ho cercato di tenere la mente chiusa e gli occhi sempre aperti ma i risultati non sono stati un granchè. Non ho neanche grandi pensieri in serbo per te, solo il rammarico per non averti scritto più spesso. Quando inizi a prendere un certo ritmo, le parole scorrono come un fiume in piena e sembrano non volersi arrestare mai; dal canto mio, quel silenzio è stata una piccola diga o dei bassi argini intorno a quel fiume, perché non riuscivo più a controllarne il flusso.
Non ricordo quando, credo domenica pomeriggio o ieri mattina, ero in bagno con mio fratello, io mi preparavo per uscire e lui anche, ognuno avanti al proprio specchio. Eravamo in silenzio, rotto solo da una sua frase: questo mondo fa troppo rumore. Io l’ho guardato. “ti prego dimmi altro”, cercavo di sussurrargli, e di rimando mi ha ceduto uno sguardo stranito.
“che c’è?”
Che c’è? Mi chiedi che c’è? Sono sconfortata, ecco cosa c’è. Mi dici qualcosa che secondo te non ha peso ma che in realtà nasconde una verità enorme e lo dici come se stessi chiedendo alla mamma cosa c’è da mangiare a pranzo o se l’Inter ha vinto la partita o meno. Forse era solo la frase di una canzone, ma perché non ci hai pensato più a fondo? Ti sei mai chiesto perché c’è rumore e perchè è l’unica cosa a dar fastidio? Non è solo rumore, è che a volte il silenzio parla ma non sappiamo ascoltare e ci arrabbiamo, e quando ci si arrabbia si ha voglia di rompere tutto.. anche quello stesso silenzio. Ecco cos’è il rumore: mancanza di silenzio. E c’hai mai pensato che il silenzio stesso è il rumore più grande che possiamo scatenare? Il silenzio fa paura, nel silenzio si nasconde quello che non vuole uscire allo scoperto. Perché non hai insistito? Perché lasciare che fosse solo la frase di una canzone? Avrei voluto, come quel giorno in cui mi hai chiesto un libro da leggere (e per me è stata una cosa indescrivibile), che tu mi dicessi cosa ti avesse lasciato quella frase. Ti sarebbe bastato fermarti un attimo di più davanti a quello specchio e le parole avresti potuto leggerle sopra, perché quando ti guardi negli occhi niente può più sfuggire.

Ci spero. Spero che arrivi il momento in cui vedrai passare la vita davanti agli occhi, nell’aria che respiri; che una singola parola ti scateni l’inferno dentro; che non accetterai un No, come risposta, che ti possa chiedere sempre il perché e il come. Spero che arrivi quel momento e, quando arriverà, io sarò lì.

domenica 5 gennaio 2014

Nell'odore di calca c'è aria di festa

Caro destinatario delle mie lettere,
stamattina non sapevo da dove cominciare, meno male che il salutarti è sempre un bel modo per rompere il ghiaccio. Ti racconto a cosa devo la lettera di oggi.
Ieri pomeriggio, subito dopo pranzo, ho cercato un’immagine, una che rispecchiasse l’idea che già da tempo si era creata nella mia mente. Ho scelto una frase pertinente, ho aperto uno di quel programmi che anche una scimmia saprebbe usare, uno per editare le foto s’intende, ho aggiunto il testo alla foto e ho salvato tutto sulla chiavetta. Mi sentivo un po’ in trepidazione, sentimento alquanto anomalo in queste circostanze: chi è che si esalta perché deve andare in cartolibreria a stampare una foto, in bianco e nero per giunta!, e nemmeno sa cosa farne? Mah. Eppure io ero felice.
Stampato lo stampabile, sono tornata in macchina, quando mi son detta che una cornice sarebbe stata più che perfetta. Semplicemente ho aperto la porta di fronte, sono entrata dal fotografo e poi dritta a casa. Sentivo la fibrillazione fino alla punta dei piedi, quello sarebbe stato davvero il primo, “vero” incontro. Un ciao a papà di sfuggita, tutta la mia roba appoggiata sul letto e corro nel cassetto della cucina, ricordo di averci visto dei chiodini. “Papà e il martello dov’è?”, “Non è qui”, ma non mi abbatto. Quante volte ho visto appendere quadri al muro con la suola (o era il tacco?) di una scarpa? Ho cercato un po’ nella cassetta degli attrezzi mentre pensavo al come, quando ho trovato una tronchesi. Perfetta. Corro in camera, bum bum bum, le mani piccole abbastanza per non farmi male, e il quadro è appeso. Ancora altra soddisfazione.
Ho ripreso la foto tra le mie mani e ho pensato “io faccio parte della generazione di quelli che non ti hanno conosciuto ma che tengono viva la tua voce”. Si, la voce prima del ricordo, perché la voce può lasciare ancora ferite profonde e lanciare moniti che ancora verrebbero ascoltati.
Lo tengo più vicino a me perché possa essere il pugno stretto che mi invoglia a seguitare pur nella piccolezza delle mie azioni, con le idee e con il coraggio suo, perché non è mai tardi per chi decide di dissentire. Insegnami ad urlare, un passo alla volta.
Buon compleanno Peppì.



Giuseppe Impastato, Cinisi 5 gennaio 1948 / Cinisi 9 maggio 1978

venerdì 3 gennaio 2014

L'amorale*

Caro destinatario delle mie lettere,
è brutto non poterti dare un volto o un nome. Non riesco a figurarti neanche nella mia mente e forse dovrei anche chiederti scusa. Ti scomodo senza sapere chi sto scomodando ma, in fin dei conti, mi fa piacere scriverti e questo dovrebbe (forse!) poter sollevare di poco la mia colpa. 
Ho una strana sensazione addosso. A te capita mai? Un senso di pesantezza, un macigno tra il petto e lo stomaco che crea un groppo alla gola. Non so cosa sia, non so da dove venga, non so quando andrà via. Forse li si fermano tutti i pensieri che non riesco a deglutire, forse (in mancanza d’altro) è un modo per far sentire che ci sono. Ci sono e mi svuotano, vorrei dire ma non so cosa. Vorrei scrivere ma non esce nulla, non riesco a esprimermi, guardo le mani e non ci vedo nulla. Non è impotenza e neanche tristezza, è un qualcosa a cui non so dare il nome. È forse il frutto di un tanto pensare che ti porta niente, è la volontà inespressa e inesaudita di voler fare quel qualcosa in più e che ancora resta ferma. Poggiare ogni sera la testa sul cuscino e dire ‘’cosa ho fatto oggi? Potevo far di più, allora perché non l’ho fatto?’’. È brutto non riuscire a capire perché questo continuo senso di anacronismo, come se appartenere a questa generazione fosse una condanna. Io mi sento così e non è la lagna del ‘’nessuno mi può capire’’. È essenzialmente il voler parlare in un certo modo di determinate cose e aver paura di esser presi per matti. Il voler confidarsi di questo e quel pensiero e ricevere sguardi torvi. Sai quant’è difficile vivere senza catene e sentirsi rinchiusi? Forse questa è la mia condanna, fare tante domande, e a chi poi?, e non ricevere risposta. È trovarsi in un androne freddo e desolato, senza niente e nessuno, e sentire solo il rimbombo della propria voce. È urlare in una piazza gremita di gente senza essere ascoltati.
Ad ognuno la propria croce, ed io concludo con una mezza citazione:
nella speranza che qualcuno ti consoli / con l'ignoranza di chi dorme sugli allori.

A presto.. ma quand'è '"a presto"?



*L'amoralismo s'inserisce nel pensiero di Nietzsche che giudica la morale come espressione di quello spirito apollineo che pretende di ingabbiare la vita dell'uomo in un complesso di regole sociali che mortificano i suoi più autentici valori vitali.

giovedì 2 gennaio 2014

Senza lenti per guardare il mondo

Caro destinatario delle mie lettere,
ti capita mai di soffrire d'insonnia? Io è un periodo che proprio non ne voglio sapere di addormentarmi, così mi metto nel letto e aspetto. Aspettare è una cosa che so fare, so cosa vuol dire e so come funziona, così spesso lo prendo in giro: apro un libro, scorro le pagine, vedo i numeri che aumentano e la mano sinistra comincia a sentire sempre più il peso della carta e dell'inchiostro. La cosa mi innervosisce, la notte è fatta per dormire, non per giocare a nascondino. Cara sonnolenza, dove sei? Perchè non arrivi? Al che spengo tutte le luci, chiudo la porta e mi infilo sotto le coperte, il corpo si lascia andare ad una flebile tranquillità fino a quando sento che pian piano scivolo via dal luogo in cui mi trovo. 
Dormi-veglia.
Mi pare di sentire dei rumori, delle voci. A volte sento qualcuno che mi chiama, così mi prende la paura e mi aggrappo al cuscino, come se in quel momento sia l'unica cosa che possa tenermi realmente al sicuro. Mi chiedo chi, a quest'ora della notte, mi abbia chiamata, cosa voglia da me, perchè proprio io. Nessuno, non c'è nessuno. Allora, da dove? Apro gli occhi, ma non vedo. Continuo, imperterrita, a guardarmi attorno, ma sono miope e non riconosco nulla, fino a quando gli occhi pian piano si abituano al buio. Cosa vedo? Cos'è quell'ombra? Cos'è quella figura che si nasconde in un angolo, che pare non distogliere lo sguardo da me?
Ho ancora più paura e apro la porta. Non c'è luce, ma mi rasserena l'aria nuova. Gli oggetti hanno cambiato forma e posizione, hanno approfittato della mia distrazione per nascondersi meglio. Prendo gli occhiali, li inforco e nulla mi fa più paura. C'è la sedia, la bottiglia, il termosifone e la tenda, tutto esattamente dove l'avevo lasciato. Poi nel letto torna la paura e mi sembra che quella miopia sia la mia paura più grande. Cavillo sulla possibilità che a farmi paura sia una realtà che non riesco a comprendere. 
E se proprio quella fosse la reale realtà? E se quella mia miopia fosse, in verità, la lente giusta per guardare il mondo? 
La realtà con i mostri. La realtà senza luce, piena di ombre e intangibile, senza filtri, nuda e cruda. E' quello il mondo a cui non siamo abituati, perchè ricerchiamo la bellezza che sta nella luce e nell'acqua che rispecchia il sole, nel fiore che sboccia e nella vita che nasce. Mi chiedo allora cosa sia reale e cosa no, se stia solo delirando per il sonno che non arriva o se semplicemente non aspetti la notte per mettere in moto meccanismi che durante il giorno si distraggono, perchè la vita è piena di cose che arrivano e che vanno via. Forse la notte è fatta per pensare alle cose che restano, a quelle che sono sempre li e a cui nessuno da peso.
Caro destinatario, sai darmi una risposta?  

mercoledì 1 gennaio 2014

L'anno nuovo comincia da me

Caro destinatario delle mie lettere,
mi chiedevo: a che ora hai festeggiato il nuovo anno? Prima di scrivere, pensavo proprio a te. Sbaglio grandemente a dar per scontato che tu sia uno di quelli che il Capodanno l'ha festeggiato diciassette ore fa, magari per te è già passato un giorno e l'ebbrezza della novità è già passata. Quindi, caro destinatario delle mie lettere, ritieniti (sotto certi punti di vista!) anche fortunato, che magari la mia lingua non la capisci e ti risparmi righe e righe di stramberie. Se invece così non fosse.. beh, non lamentarti che tanto è il primo dell'anno e non credo tu voglia iniziarlo negativamente.
Una settimana fa ho cominciato a riflettere sul mio percorso durante l'anno ormai andato. Ho cominciato l'università, ho perso e iniziato un nuovo lavoro, ho conosciuto davvero tanta gente. Tutte cose belle, vero? Eppure ognuna di queste ha una sorta di cancro alle spalle. 
Quali e quante insidie nasconderà il mio percorso di studi? Riuscirò a farcela?
E il lavoro, sarò sempre all'altezza? Se mi mancherà la voglia, riuscirò a farmi coraggio e a riprendere da dove avevo lasciato?
Le persone che ho perso, riuscirò mai a ritrovarle? Dove sono andate? Perchè sono andate via?
Tutte domande che alla base hanno un’unica, inequivocabile risposta: dipende da me. Si, perchè è inutile sperare in “un anno che”: gli anni, le settimane, i giorni, ce li creiamo noi, tutto sta nel modo in cui decidiamo di prendere le situazioni che ci vengono presentate. Io dal mio nuovo anno, mi aspetto semplicemente una nuova me o di perpetuare ad essere la vecchia me. Spero di continuare ad essere la mia meraviglia, spero di riuscire a crescere nel modo in cui io stessa ho previsto di farlo e di gettare le giuste basi per diventare quello che il mio cuore mi dice di voler essere.
Questo è il motivo per cui dal nuovo anno non aspetto nulla ma aspetto tanto da me: il fuoco che mi arde dentro sarà la mia forza, i miei occhi saranno la mia guida, la mia tenacia sarà la mia pienezza più grande. Quindi, prima di tutti, auguri a me che getto alle spalle quello che è stato ed apro oggi una finestra al futuro, indipendentemente dal tempo che c’è fuori: saprò godere anche dei giorni di pioggia, di neve e vento, convinta che quello che verrà dopo sarà, ogni volta, la meraviglia più grande. Buon inizio.