lunedì 31 marzo 2014

Le notti in bianco

Caro destinatario,
ma com’è che io ti scrivo sempre e tu non mi scrivi mai? Per ogni lettera che non mi spedisci, passo una notte insonne.
Hai capito già di cosa voglio parlarti? Che sia colpa tua o meno, è un po’ che la notte non ne voglio sapere di dormire. Che faccio? Un bel niente, vago per casa come un’anima in pena, accendendo e spegnendo luci e svuotando bottiglie d’acqua che mi costringono a rialzarmi dal letto qualche ora dopo, quando mi sembra d’aver trovato un po’ di pace. Nella maggior parte dei casi invece sono pigra e mi dedico a quella che è la vera e propria accezione del termine: meditazione tra la vita e l’inspiegabile. Ma certo, ancora ti meravigli? La notte è la culla dei discorsi non scritti, quelli che trapelano tra le pieghe delle coperte, quelli che “meno male che nessuno mi sente, sennò..”, quelli che invece “meno male che ci sono, altrimenti chissà cosa ne sarebbe della mia amara esistenza”. Quelli che la mattina dopo ti ritrovi con certe occhiaie che neanche le buche di via Martina.
Una notte, ormai turbata dal mio desiderio inascoltato di dormire, ho acceso il pc e ho fatto qualche ricerca sul caso e ho scoperto che gli amici Greci (te li ricordi? Quelli dell’otium.. pare che alcuni di loro non riuscissero ad oziare neanche di notte) vedessero il sonno come un bambino che, gaiamente, correva felice per la terra con un papavero nella mano sinistra e un contenitore nella destra, piena di succo dello stesso, per dare riposo agli uomini. Un po’ mi sono arrabbiata, perché sicuramente il bambino-sonno rispecchia l’uomo o la donna assegnatogli, ragion per cui il mio è sicuramente caduto prima di portarmi il succo. 
Qui, comunque, c’è poco di cui scherzare: quando accanto alla parola insonnia leggi quella di Zeno Cosini, allora realmente c’è qualcosa che non va. Ho pensato alla possibilità che l’insonnia fosse sinonimo d’inettitudine, perché durante la notte ti sobbarchi di tutti i problemi che il giorno non sei riuscito a risolvere e te li porti dietro fin quando non sopraggiungono i “rintocchi delle prime campane”. 
Il mio Kafka ne soffriva tremendamente, allora cominciava a scrivere e le ore passavano. 
«Domenica, 19 luglio 1910: dormito, destato, dormito, destato. Vita miserevole. 21 luglio. Non posso dormire. Soltanto sogni e niente sonno. 2 ottobre. Notte insonne. Già la terza in fila», questo appuntava nelle sue lettere. Devastato, quando ormai non ti resta altro che la tua vocina nella testa, ironicamente disse che “dopotutto, qualcuno che rimane sveglio ci vuole”. E ci vuole si, ma perché sempre io?

Il dio Enhil perse il sonno perché gli uomini sulla terra cominciarono ad amarsi rumorosamente (e che facevano, scrivevano Ti amo sull’asfalto coi martelli pneumatici?); l’eroe Gilgamesh invece venne alla luce proprio senza sonno, era nato per non fermarsi mai. 
I poeti romantici volevano dormire, ma le canne, ahimè, erano una tentazione troppo potente per evitare di viaggiare ed esplorare mondi sconfinati. Putten di vizij.
Chi non dormiva per volontà d’altri era Balzac, che poverino doveva lavorare e lavorare perché si doveva sposare e senza soldi non si va da nessuna parte.

Ne ho letti così tanti che potrei fare una lista lunga quante le ore che ho passato sveglia tutte queste notti, però di una cosa sono grata a questi poveri giovani: leggendo le loro mirabolanti sventure, mi son girata dall’altra parte e mi sono messa a dormire. E' un'antica tecnica, si chiama "Ci ma fesh fa": la conosci?

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