venerdì 18 luglio 2014

Lettera ad un'amica mai nata

Cara amica mia,
chiamarti amica è già un azzardo, mia è addirittura impensabile.
Non si possiede ciò che non si ha.
Riflettevo questa mattina sulla possibilità di poter essere felici affidando anima e corpo ad un'altra persona. Pensaci: un problema diviso due è già metà problema, un pensiero condiviso è già una piuma nel cielo. 
Amica, a volte mi chiedo se non sia una millanteria camminare convinti di avere qualcuno che ci sorregga quando siamo sull'orlo di un burrone, quando siamo ad un passo dal cadere giù senza voler almeno tentare di evitarlo.
Ho come il vago sentore di aver avuto, una volta, due cuori in uno; lì, dove ora tutto sembra fermo, una volta c'erano il caldo e il freddo, la compagnia e la solitudine, coesistevano il bello e il brutto senza darsi spintoni, perchè dirsi amiche è già compensazione.
A me manca quello che hai tu.
A volte ci penso e mi chiedo se non stia dando di matto, se sia possibile inventare sensazioni, emozioni e plasmare ricordi secondo il nostro gusto e la nostra volontà. Sicuramente si, l'uomo è capace di questo ed altro per protendere verso i propri fini; sicuramente no, l'uomo non farebbe mai qualcosa per ledere se stesso.
Eppure mi dico che avere due alternative è come avere nessuna verità, quindi mi chiedo ancora se avere quei due cuori fosse come avere nessun cuore.
Tu non ci sei mai stata, non sei mai esistita, non mi hai mai conosciuta.
Non sono veri quei ricordi di me e te che ci scambiamo il gelato per avere quattro gusti in due, non sono vere le passeggiate senza una meta, non sono vera io piena di capricci e non sei vera tu che non dai segno d'esser mai vissuta sulla seggiola vuota accanto alla mia.
Non sono non-verità, è solo dolore e coscienza d'essere uno e non due.
Scrivo a te che non sei mai nata per dirti che capita di nascere ogni giorno e di esser fatti quel giorno per stare soli perchè, neanche in quelle ennesime ventiquattro ore, neanche in un'altra parte lontana del mondo, non ha aperto gli occhi chi è capace di sorreggere un peso come il tuo.
A volte non nascono mai, a volte nascono in ritardo, a volte nascono senza riconoscersi nell'altro e allora non si trovano mai. Pazienza, poco male, dico io. Non nascere e non riconoscersi sono mancanze di un uomo troppo peccatore per volersi aggiustare, per volersi migliorare ammettendo prima di essere un poco in un immenso.
Quando non ci si basta, la cosa migliore è uscire, guardare altrove, cercare e cercarsi negli occhi di un altro riconoscendosi per quello che non si è. O che si è.
Amica mia, io ti ho cercata, ho guardato fuori avendo gli occhi chiusi, perchè trovarti sarebbe ricredersi e forse ricominciare. Non lo faccio per amor mio, perchè io sono rimasta mia quando mi sembrava di non avere più niente e ravvedersi è già tradirsi un po'.   
Io qui ti abbandono e non senza dispiacere, ma per abbandonare bisogna possedere.
E non si possiede ciò che non esiste.

mercoledì 16 luglio 2014

Loki, il signore delle ambiguità

Caro destinatario,
è rinomato, ma sicuramente non esplicitato da me nei tuoi riguardi, l'amore immenso che provo verso i miti, i racconti e le leggende. 
Già da bambina ero appassionata di mitologia greca, grazie a mia mamma, e alle scuole medie ricevetti un libro come premio di fine anno del corso di teatro che verteva proprio sui miti che a me piacevano tanto. Rettificando la mia ferma credenza che il caso non esista, ho reso sempre più mia la passione per il mito allargando gli orizzonti anche verso le leggende popolari di paesi completamente abbandonati dal mondo.
Questa mattina ho fatto una ricerca tra le leggende nordiche; tra tanti nomi di guerrieri forti e possenti, non potevo che aprire la pagina del forse più sfigato di tutti: LOKI, il signore delle ambiguità.
Premettendo che il nome è tutto un dire, perchè con un accorgimento diventerebbe L'OKI, il signore degli ammalati, ho tirato fuori la parte più caritatevole del mio essere e mi sono cimentata nella lettura.
Pare che il tipo non fosse solo il soggetto della comitiva divina, il buffone OLIMPionico per eccellenza, ma si rendesse anche odioso agli occhi di tutti per il suo essere scontroso, burbero, doppiogiochista, tracotante e altre malignità varie. La madre si chiamava FARBAUTI (sicuramente FARABUTTO in barese) e il padre LAUFEY, che era comunque un cattivone: cattivo sangue non mente - o mente sempre.
LOKI era bello, POLIMORFO e dannato, ambiguo per questo, e deteneva il record di amori meno duraturi di tutti i tempi: persino ORKY, il cugino di quinto grado della famiglia POLIFEMA, quello con un occhio solo e brutto come Ade, riuscì ad arrivare al settimo anno di fidanzamento.. poi scoppiò la crisi, ma quella è un'altra storia. Dicevo, il bello ma cattivo lavorava in un'agenzia di viaggi oltreoceano ed era molto amico del sindaco Odino, che pare facesse patti col diavolo pur di ottenere quel che bramava.
Stanco di una vita frivola e spericolata, LOKI prese moglie ed ebbe un figlio, anche se quella povera crista poteva benissimo farne a meno: lei fu condannata in saecula saeculorum a raccogliere un liquido che delle serpi versavano sul corpo del marito, come pena a tutte le malefatte compiute, mentre era legato con le budella di uno dei due figli ucciso dall'altro, trasformato in un lupo mannaro.
Ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
Durante le sue notti brave, il periodo più ricco di efferratezze e perversioni erotiche, LOKI si divertiva a trasformarsi in una giumenta perchè era terribilmente attratto dagli stalloni; spesso perpetuava queste sue metamorfosi - anche se l'accezione del termine è abbastanza disambiguo - e partoriva esseri mostruosi a volte consunti su roghi appositi, come nel caso dell'orchessa Angrbodha il cui cuore, rimasto illeso, venne mangiato dal padre/madre LOKI. L'assimilazione dell'organo cardiaco causò la formazione, nel ventre del divino (che di divino non aveva nulla) di tre mostri: un serpente, un lupo e una fanciulla grossolana. 
Diffusasi la voce della pericolosità di queste creature, il sindaco (meglio tardi che mai) li esiliò perchè disse che non erano buoni neanche per il carnevale o per il circo. La serpe in particolare venne reclusa nelle profondità dell'oceano dove crebbe a dismisura e cinge, tuttora, il mondo con le sue spire: non a caso, viene chiamato "Serpe del mondo". Alla serpe il lavoro andrebbe anche bene, la paga non è male, se solo non fosse per quel guastafeste di Thor che, a giorni alterni, cerca di ucciderlo.
Alla sorella è andata meglio: fa la regina degli Inferi, ogni tanto infligge punizioni senza motivo ma per il resto non c'è male.
Il lupo invece fa da badante alla nonna di Cappuccetto Rosso: vitto, alloggio e cestini di prelibatezze ogni 7 e 21 del mese.

Forse il mito non è stato raccontato, nell'originale, proprio nello stesso modo ma il bello delle leggende popolari è che, passando di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, capita sempre chi il gioco del telefono non lo sa fare e travisa un po' le cose. D'altronde, vista la realtà e la gravità di fatti del genere, non penso che sapremo mai come sono andate realmente le cose..      
     
      
Selfie con autoscatto della punizione di Loki, 2014

domenica 15 giugno 2014

The importance of being Carest - L'importanza di chiamarsi Mamma

Caro destinatario,

due giorni fa è accaduto qualcosa che ha profondamente turbato la mia indole materna: mio figlio stava per morire. Il problema, magari, non sta nemmeno nella morte in sé ma nelle modalità in cui il tutto è avvenuto: ebbene, il piccolo Kafka ha tentato il suicidio. Ultimamente lo vedevo silenzioso, mangiava e si chiudeva nella stanza, ma nulla faceva presagire le cose strane e misteriose che da lì a poco sarebbero accadute. Mi chiedo se non sia colpa del mio continuare a trattarlo come un bambino quando ormai è un ometto, ha già 36 giorni e me sembra sempre come se fosse ieri che è entrato nella mia vita. Nulla, la giornata di venerdì era apparentemente tranquilla: ho fatto i servizi, gli ho preparato lo spuntino e mi sono messa un po’ a leggere. Ricordandomi che quello era il giorno del bagnetto, ho lasciato di fare quel che stavo facendo e sono andata nella sua stanza. Ha cominciato a divincolarsi perché non voleva lavarsi, correva a destra e a sinistra per sfuggire alla mia presa e non voleva sentir ragioni. “Franz, non fare il monello, ora mi arrabbio!”, gli ho urlato, ma è stato come se il mio rimprovero gli entrasse da un orecchio e gli uscisse dall’altro. Così ho preso il cucchiaio di legno, lui si è messo sull’attenti e finalmente siamo andati a fare il bagno. Mentre preparavo la vasca, lo guardavo piena di sensi di colpa per averlo sgridato; ho capito quant’è difficile per una madre dover ricorrere alle maniere forti solo per farsi ascoltare, perché il suono amorevole della propria voce a volte non basta. 


È stato un attimo.

Mi sono allontanata due secondi per prendere l’asciugamano, sicché non si raffreddasse una volta finito il bagno, e i miei occhi hanno visto il dramma compiuto: Franz era a terra, inerme, il petto non dava segnali di movimento e ho subito pensato al peggio. Ho urlato come se, in quel momento, a morire fossi io, come se ci fossi io a terra al posto di quel corpicino. Non avevo il coraggio di avvicinarmi, volevo prendermi a pugni per esser stata una madre disattenta, degenere, incauta e non so più che altro. Non riuscivo a toccare quello che io stessa avevo lasciato che accadesse. Mentre la mente camminava e il corpo restava immobile, mio fratello è accorso in mio aiuto praticandogli un massaggio cardiaco e Franz ha ripreso a respirare. Non mi ha nemmeno guardata, è stato come se nulla fosse accaduto ed io non ho voluto riaprire l’argomento. Non posso, però, cancellare le sensazioni di terrore che ho provato in quel momento!

Mi chiedo come sopravvivrò alla tempesta ormonale, ai primi amori, ai problemi adolescenziali e tutto il resto se lui non mi parla. Si chiude in sé, nel suo mondo, e non parla con nessuno. È dura essere una ragazza madre ma sento di non fargli mancare mai nulla. Certo, quando lavoro devo lasciarlo dalla nonna ma è solo per garantirgli un futuro! Spero non ce l’abbia con me per questo. Anzi, forse la cosa peggiorerà quando dovrò dirgli che è stato adottato: certo è che, confrontando il colore scuro della sua pelle con il mio, qualcosa l’avrà intuita. È intelligente il mio bambino e mi auguro che capisca che ogni mio passo, giusto o sbagliato, è stato un passo pieno di amore compiuto solo per lui.

lunedì 9 giugno 2014

Equivocamente parlando - I Menecmi

Caro destinatario,
c’era un tempo in cui scrivere era vitale come lo è per me bere succo a pranzo, ma ultimamente mi sto perdendo un po’. E sto perdendo anche un paio di dita al giorno, se vogliamo dirla tutta. C’era un periodo in cui mangiavo carote a go-go ogni pomeriggio, le vaschette intere, e questo comportava dita sbucciate per colpa del pela carote. Ad un certo punto anche il sangue era diventato arancione, poi ho deciso di smettere e le mie dita hanno rivisto la luce. Ora sono nella fase “a volte ritornano” e giro con le dita incerottate, sintomatico che c’è qualcosa che non va.

Ieri non sai cosa è successo: ho fatto un vero e proprio salto nel passato, fino agli anni della terza media in cui mi atteggiavo ad attrice da miglior premio Oscar al teatro della scuola ed in particolare pensavo ad una rappresentazione di cui mi rendo conto solo ora di quanto mi sia rimasta nel cuore.
La storia era incentrata sulla commedia degli equivoci ad opera di Plauto ma, più precisamente, sulla storia di due gemelli e sulle loro peripezie quando l’uno viene scambiato per l’altro. Un po’ come quando io e mio padre usciamo di casa e la gente chiede a me il perché mi sia tagliata i baffi e a lui il perché NON se li sia tagliati. È dura la vita del gemello.
Dicevo, questi due gemellini non hanno avuto vita facile: a parte il fatto di chiamarsi nello stesso modo (immagina te l’ansia quando in classe ti chiamano per l’interrogazione e il prof dice “chiamiamo Menecmo... vediamo: 1 o 2?” e tu lì a morire di crepacuore) ma anche perché uno dei due venne smarrito al mercato di Taranto dal padre. Vedi cosa succede a far fare le cose agli uomini?
Insomma, tra una vaschetta di pomodorini a 50 centesimi al kilo e i kiwi da scegliere perché la mamma a casa deve preparare la torta alla frutta, uno dei gemelli si perde. Al tempo le adozioni erano molto più semplificate rispetto ad ora, così un uomo lo trovò per strada, lo guardò e disse “lo adotto” molto facilmente, come si farebbe a quel famoso mercato davanti al banco del pesce.

Per capirci meglio, M1 è il gemello smarrito, M2 l’altro.

Una volta a casa, il padre riferì la notizia dello smarrimento e la moglie fece volare in aria il tavoliere sul quale stava impastando la base per il dolce; qualche giorno dopo, il marito morì. Molti dicono sia stato il dolore ad ucciderlo, secondo me è stata la moglie.
Ad M2 fu dato solo in seguito il nome del fratello, una sorta di lapide vivente insomma. M2, crescendo, sente il bisogno di trovare il fratello perduto (ma chi gliel’ha fatta fare, poi? Non era contento di avere la stanza tutta per sé?) così arriva ad Epidamno insieme al servo: bingo.
M1 era diventato un bel giovane con tanto di moglie e amante, proprio per non farsi mancare nulla; un po’ tirchio, forse, dato che sottraeva alla moglie per dare alla morosa. No, non c’entra niente con Robin Hood… quella è un’altra storia. 
Quel giorno, M1 era ospite a pranzo dalla concubina così, mentre attendeva che fosse pronto, esce a fare un giro al foro; contemporaneamente, il cuoco viene mandato al mercato per far la spesa e, ta-da!, incontra M2 scambiandolo per M1. M2 pensa di esser capitato nella città dei pazzi, ma lascia perdere e prosegue il suo giro. Incontra poi una strana donna che lo invita a pranzo: cambiando idea riguardo quella città che appare ora così ospitale, accetta. Il servo di M1, Spazzola (era un soprannome datogli per via dei capelli e che cresceva con lui: da piccolo lo chiamavano Pettine), vedendo il suo padrone uscire dalla casa dell’amante senza averlo aspettato, spiffera tutte le sue malefatte alla moglie che subito scappa di casa e tira le orecchie ad M1 chiedendogli la restituzione del mantello, dono di M1 all'amante, ormai nelle mani di M2 in seguito ad un equivoco. M1 si reca quindi a casa dell’amante, nel frattempo però M2 viene fermato dalla moglie e dal padre e riempito di domande di fronte alle quali, ovviamente, egli non sa che rispondere o nega imperterrito. Viene interpellato un medico ma M2 scappa fingendosi pazzo; i medici lo inseguono ma acciuffano M1, ignaro della situazione e in preda al panico. Povero diavolo.

La rivelazione dell’equivoco avviene per mano del servo di M2, che riconosce subito il volto di chi l’ha stipendiato per tanti anni: Maria apre la busta e i gemelli si riabbracciano.

Ah, quella povera cristiana della moglie, cornuta e mazziata, viene pure venduta all’asta. Una cosa però l'ho capita: per quanto possa essere importante il legame con la famiglia, tra moglie e marito... non mettere il gemello.

mercoledì 21 maggio 2014

Per viltade il gran rifiuto

Caro destinatario,

tempo fa ti scrissi una lettera, era esattamente una mattina del 16 aprile ed erano le 12 e 08 in punto. Ti scrissi senza la volontà di renderti realmente partecipe dei miei pensieri, capitano periodi in cui vorrei abbandonarti ma poi ci penso e proprio non ce la faccio.
La tua/mia lettera faceva all'incirca così:

Caro destinatario,
in meno di una settimana la mia vita si è completamente capovolta: il caro pesce rosso è morto, dopo un anno e mezzo quasi di fantastiche avventure; il mio primo articolo è stato pubblicato e quel pazzo del mio direttore addirittura ne pubblicherà un secondo; il concerto del coro in cui canto è andato Oltre Ogni Previsione (le influenze potteriane si fanno sempre sentire) e, cosa ancor più meravigliosa, ho toccato da vicino qualcosa che mi pareva così irraggiungibile che neanche l’idea s’azzardava a sfiorarmi la mente.
Non di rado capita che la paura o il pensiero di “quel che potrebbe accadere se” ci impediscano di andare infondo a talune questioni che potrebbero, invece, avere un risultato migliore della vincita al lotto. Mi spiego meglio: un buon uomo di nome Dante a nove anni conobbe una bambina di nome Beatrice (o Bice, come la chiamavano in paese); le bambine, si sa, crescono e si sviluppano molto prima degli uomini (che in alcuni casi non crescono affatto) e Bice era bruttina, piatta come una tavola e con i crateri lunari sul viso. Dante, per queste ragioni e avendo di se una grossa autostima perché la mamma gli diceva che era bello, non volle mai approfondire l’amicizia con lei, nonostante le rispettive famiglie volessero farli accasare in modo tale da passare Pasqua e Natale sempre insieme. Insomma, quel matrimonio non s’era da fare.
Passarono gli anni, a Dante crebbe un uncino al posto del naso e finalmente raggiunse l’età adatta per guidare. Una sera, durante un’uscita con gli amici, il nostro amico incontrò per strada una donzella bella, ma così bella che a Dante sembrò avesse addirittura le ali. In Dante cominciarono a moversi il sole e l’altre stelle, voleva urlare al mondo quant’ella fosse beata e tenerla con sé per il resto della vita. “Sovra candido vel cinta d’uliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva”, cominciò a dire quasi in preda ad una visione mistica. “Quando esci con noi, te non bevi più, testina”, gli cantarono gli amici.
Con la scusa più banale del mondo (“mi scusi, mi sa dire che ora è?”), lei gli parlò. “Dante, non mi riconosci? Sono Beatrice, la figlia di Ninnella!”.
Beatrice. Quell’anatroccolo di donna si era trasformata in uno splendido cigno che brillava di luce propria, quell’errore della natura era ora l’opera più bella e perfetta di Michelangelo, solo che lei parlava.
Dante, l’indomani, fece pervenire a casa di Beatrice XXXI candide rose e si chiuse in casa per scrivere un poema divino degno della donna amata. Passarono gli anni, e Dante ancora pensava a lei ma non poteva assolutamente lasciar insoluto quel papirone a cui si stava dedicando. Una mattina funesta, però, un bando avvisò la città che la bella Beatrice non solo era morta, ma che il marito ne dava il triste annuncio. Il mondo gli cadde addosso, nulla più aveva un senso. Cosa sarebbe stato, ora, della sua vita nuova, quella che aveva conosciuto da quando l’aveva incontrata? Durante il periodo luttuoso, Dante decise di andare avanti e conservare il ricordo di lei, comunque si sposò ed ebbe 3 o 4 figli, ma non si sentì mai completo come con lei.

Ecco, questo spiega un po’ la pratica del carpe diem: magari, e dico magari, se Dante avesse rivelato prima i sentimenti per Beatrice anziché mandarle delle rose e poi scrivere una commedia che nemmeno avrebbe mai letto, le cose sarebbero andate diversamente. Certo, è anche probabile che mai se lo sarebbe filato, però non avrebbe vissuto una vita di rimorsi. È un po’ come quel tale che vuol vincere la schedina ma non la gioca mai. Va bene il caso fa la sua parte, ma stare seduti a guardare è come aspettare che il telecomando si avvicini magicamente al divano su cui siamo spaparanzati: inutile e deludente.
Per questo ti dicevo di quanto, nel giro di pochi giorni, la mia vita sia cambiata avendo avuto solo la volontà di farlo. 

Inutile, quindi, piangersi addosso senza neanche aver versato il latte: spetta un posto all’inferno anche per gli ignavi e, credimi, la questione rischia di diventare pungente.


sabato 10 maggio 2014

Donne e motori, ciclo e dolori

Caro destinatario,

prima del sesso e dei matrimoni gay, l’argomento più tabù al mondo resta il ciclo delle donne. Certo, tutti sanno che esiste (non è una leggenda, tu non saresti qui altrimenti e nemmeno io) ma nessuno osa parlarne. O meglio, magari gli uomini vorrebbero parlarne ma proprio in quei cinque giorni di periodo rosso in cui le donne, o la maggior parte, sono completamente intrattabili. Che poi, meno male che l’hanno le donne: già m’immagino gli uomini, in un ipotetico universo parallelo, morenti e sofferenti nel letto addirittura dieci giorni prima e intenti a lasciar testamento perché potrebbero non superare la notte. 



La donna col ciclo è diventato uno dei simboli ad hoc per la rappresentazione del male: occhi infuocati, capelli irsuti come serpi, sguardo arcigno e unghie e denti affilati pronti a sradicare dalla faccia della terra la prima parola o frase detta in modo sbagliato. Non per niente, nel Medioevo si riteneva che avere rapporti con una donna mestruata potesse provocare la lebbra: in quei giorni, la donna impura e peccatrice (ma de che?) veniva costretta in una stanza in isolamento perché aveva poteri forse inversi a quelli di Re Mida sciogliendo come acido tutto quello che toccava. 


Le donne mestruate furono prese sempre più di mira e messe sempre più nell’occhio del ciclone, tanto che diversi medici della Grecia antica studiarono il fenomeno dell’isteria come causa di un fantomatico utero vagante che capovolgeva completamente l’anatomia femminile provocando, appunto, fenomeni di fanatismo estremo. Ne parlarono in così tanti che dopo Futuristi, Crepuscolari e Avanguardisti, nacquero anche gli adepti alla “corrente pro-mestruo”, caratterizzata da scritti nei quali compaiono anche “uteri birichini che scappavano quà e là”. Mi chiedo se, anziché la falce e il martello, utilizzassero assorbenti e tamponi come icona riconoscitiva… 
Dati e testimonianze sono riportate, ovviamente, da medici di sesso maschile. Chi l’avrebbe mai detto.
Dall’altro lato della medaglia, però, il ciclo è diventato fonte di guadagno per i coraggiosi che si son cimentati in questo misterioso infero terrestre e che hanno saputo trarne profitto con chimeriche coppette raccogli ciclo (e magari conservarlo per i periodi di magra o improvvise visite di Edward il vampiro) e assorbenti tappa-ogni-buco.
La verità è che quella della donna mostro è solo una leggenda per allontanare i teppisti della domenica, quelli che proprio non riescono a non infierire sui bubboni fase premestruale che addobbano a Natale il viso delle malcapitate. Una piccola vendetta, in sostanza, ci sta tutta.
Non è un’epopea, invece, la visione della donna eroe: dopo la signora in giallo, quella in rosso sarebbe stato un ben degno tributo. La carta non esisteva ancora, le donne vivevano nelle piramidi e una volta al mese si potevano udire gli scriba urlare e inveire contro misteriosi rotoli di papiro e pergamene che sparivano chissà dove per ricomparire qualche giorno dopo, proprio nel posto in cui erano stati lasciati, ma con qualche macchiolina scura in più. Da lì nacque l’effetto bruciato della carta pergamenata. 
Se le donne del secolo scorso potessero vedere quanto sia minuscola la biancheria intima delle ragazze di oggi, sicuramente avrebbero uno shock non indifferente: per loro, in quei giorni, era normale amministrazione indossare i sì detti mutandoni della nonna o grembiuli sanitari e calzoncini così da non sporcare i cuscini quando sedevano sul divano buono. 
L’emancipazione delle donne nacque da quell’isolamento forzato che le ha spinte creare una sorta di gruppo di ciclo solidale e ispirandole a studiare su loro stesse nuovi metodi per impedire al liquido rosso di sgorgar via come la piena del Nilo: lasciate sole a casa mentre i loro mariti lavoravano o partivano per la guerra, le donne-casalinghe-madri-mogli con il ciclo testavano ogni genere di panno assorbente fino a trovare qualcosa di molto simile allo Scottex che potesse alleviarle da ogni pensiero. E poi sicuramente si riunivano in qualche Club del Ciclo per scambiare idee e invenzioni sulla questione. 

Sull’argomento se ne potrebbe discutere per ore ma sicuramente avremmo per risultato una banda di uomini segregati in un angolo con le mani alle orecchie, inermi e semi-traumatizzati perché il diavolo potrebbe intaccare il loro fragile udito. State tranquilli, filtri mortali con il ciclo ancora non ne sappiamo fare.

Ma mai dire mai.

giovedì 8 maggio 2014

Sulla sponda del fiume si son seduti e han pianto

Sempre – disse l’uomo con la barba folta e nera – cosa intendi per sempre – rispose l’uomo senza barba e con gli occhiali – quello che intendi tu per sempre, che poi è quello che intendono le migliaia di persone la fuori come te che si chiedono cosa s’intenda per sempre – sì ma io te l’ho chiesto per sapere quale sia il tuo reale pensiero – tu cosa intendi – te l’ho chiesto prima io – così sei proprio un bambino – e tu non mi hai ancora risposto – sai che in latino molte parole sono senza vocale finale – si, come se non avessero una ringhiera, infatti poi il latino è morto, suicidato, puff, buttato giù da un balcone – ma i latini avevano ragione su molte cose – tipo – tipo la parola sempre – ma allora lo fai di proposito, rispondimi e basta – dimmi sempre in latino – sempre in latino – no, idiota, traducimelo – semper – ecco, vedi, semper non ha ringhiere, semper non si pone dei limiti, semper non ha un carburante che finisce in riserva, semper è libero, libero fino all’infinito e anche oltre – ora finiamo ai cartoni animati – ma anche loro avevano ragione, semper è quel tempo che comincia ma non finisce mai – ah, come quando vai alla posta, sai quando entri ma non sai quando esci – la tua cultura spicciola è disarmante – ma ammetti che ti ho lasciato senza parole – sempre – cosa intendi per sempre.


I due uomini continuarono all’infinito, lui a non capire mai e l’altro a capire troppo, finché l’altro decise di abbandonarlo sulla sponda del fiume che aveva accolto tutte le parole e nessuna parola, quando – Addio – disse l’uomo con la barba – cosa intendi per addio – rispose l’altro, perché le cose è sempre meglio dirle tutte che non dirle mai.